La forza e il consenso
Riflessioni sul potere
che esercitiamo e che subiamo
Di Alessandra Callegari
Fatti di cronaca recenti – Rimini, Firenze… – hanno riacceso (ma si è mai spenta?) la discussione, ma anche la polemica per non dire il conflitto, sulla violenza, agita e subita, in varie forme. Sull’abuso da parte di chi esercita un certo ruolo o professione, sull’abuso da parte di chi è più forte, più grande, più grosso, di un altro. E sulla reazione di chi subisce tale abuso, sul comportamento di chi ne raccoglie la testimonianza, sul come la notizia viene divulgata.
Fatti che mi hanno indotta a qualche riflessione su un tema più generale, che ha a che fare con il potere e il suo “abuso”, nel senso più ampio del termine.
Anche perché ho la sensazione che i fatti recenti siano solo la punta emersa di un iceberg gigantesco e profondo, sommerso, nel quale tutti – e dico proprio tutti noi – abbiamo da esplorare qualcosa.
Che cos’è infatti il potere? Quali tipi di potere ci sono? Che cosa distingue poteri legittimi e illegittimi, giusti e ingiusti, autorevoli e autoritari? E soprattutto: quale potere abbiamo noi, ciascuno di noi, nell’intreccio articolato e complesso della nostra vita, e come lo esercitiamo?
Credo profondamente che tutti siamo, in quanto esseri umani, alla pari, e come tali ugualmente responsabili delle nostre azioni. Ma abbiamo anche, rispetto ad altri e in particolari circostanze, un certo “potere” in più, tale per cui la relazione non è davvero “alla pari”. E, sostengo io, per ciò stesso abbiamo anche maggiore responsabilità.
Cominciamo dunque a identificare i vari tipi di potere che – nella nostra società, in Italia, oggi – ci sono. E che abbiamo.
1) Potere legato a relazioni e ruoli riconosciuti
Un primo tipo di potere, quello più evidente, è collegato a) alla professione che svolgiamo b) al tipo di ruolo che svolgiamo in un certo contesto c) al tipo di relazione familiare.
- a) Nel primo caso, alcuni di noi svolgono professioni (uso il termine in senso ampio e non tecnico) che implicano un potere, più o meno ampio, su singoli individui, gruppi, organismi: penso a politici e pubblici amministratori, insegnanti ed educatori, medici e infermieri, terapeuti e terapisti, preti e uomini di chiesa, magistrati, forze dell’ordine, carcerieri, avvocati e notai, assistenti sociali, maestri, imprenditori, presidenti e amministratori di organizzazioni ed enti, banchieri, assicuratori, commercianti, pubblicitari, giornalisti e fotografi, ecc.
- b) Quanto al ruolo, in ambito lavorativo mi riferisco a quello degli imprenditori rispetto ai dipendenti, dei manager rispetto ai collaboratori, ecc.
- c) Rispetto alle relazioni familiari, penso soprattutto al rapporto tra genitori e figli.
Tutti questi rapporti non sono alla pari ma top/down. Implicano un maggior potere di qualcuno su qualcun altro. E si suppone che tale potere sia noto, riconosciuto e avallato.
Si suppone che chi elegge un governante sappia che gli conferisce il potere di legiferare, chi si rivolge al medico ne riconosca la competenza in tema di salute e guarigione, chi chiede aiuto a uno psicologo si fidi del fatto che possa aiutarlo a stare meglio, chi va da un avvocato voglia essere tutelato rispetto a una controversia legale, chi si rivolge a un poliziotto o a un carabiniere conti sul fatto che garantiscano il rispetto della legge, ecc. Così come in un’azienda è ben chiara la gerarchia esistente e che cosa comporti; a scuola è chiaro il ruolo dell’insegnante rispetto all’allievo; e in famiglia è assodato quello dei genitori rispetto ai figli.
Proprio perché questi rapporti comportano un potere, credo fermamente che richiedano anche un maggior senso di responsabilità, maggiore consapevolezza, maggiore capacità di essere autorevoli – ovvero di esercitare autorità – senza essere autoritari. Assistiamo invece con sgomento agli innumerevoli quotidiani esempi di abuso di potere da parte di coloro che dovrebbero per primi tutelare la legge, proteggere gli altri, garantire e difenderne i diritti.
E questo, anche, perché manca una formazione specifica (ben al di là di quella professionale), mirata ad acquisire e sviluppare la capacità di esercitare un ruolo di potere.
E lo penso anche rispetto alla genitorialità, cui ogni individuo andrebbe formato nel suo percorso di crescita dall’adolescenza alla maturità, così come andrebbe formato, più in generale, rispetto alla capacità di stare in relazione con gli altri e con se stesso (e non solo “istruito” sulla base di mere nozioni scolastiche, come invece avviene).
Distinguo tutti questi rapporti di cui sopra, che ho definito “non alla pari”, da quelli che – almeno sulla carta e nella nostra società – alla pari dovrebbero essere: tra partner, tra amici, tra compagni di scuola, tra colleghi d’ufficio ecc. E anche qui il condizionale è d’obbligo, perché sappiamo bene quanto questi rapporti di fatto non lo siano, nella grande maggioranza dei casi. Perché? Perché esiste – ed è spesso implicito, indiretto, sotterraneo, subdolo – un potere legato non al “diritto” ma allo “stato di fatto”.
2) Potere legato a “condizioni/situazioni” di fatto
Maggior “potere” sull’altro, infatti, pur non avendo un “ruolo” riconosciuto che lo giustifichi, viene spesso esercitato in nome di una o più condizioni legate al ssesso, all’identità di genere, alla forza fisica, alla struttura corporea, all’età, alla bellezza, all’energia, alla struttura caratteriale, alle condizioni di salute, al denaro, alla provenienza etnica, sociale, culturale, religiosa, al numero, ecc. Un potere, dunque, basato totalmente sulla forza, sulla coercizione, sulla manipolazione, e non sul consenso.
E questo spesso avviene – a parità di altre variabili e a seconda delle circostanze – nella relazione tra: adulto e bambino; maschio e femmina; grande e piccolo; sano e malato; giovane e anziano; forte e debole; ricco e povero; cittadino e immigrato; letterato e analfabeta; gruppo e singolo, ecc.
In tutti questi casi avere consapevolezza del proprio potere/forza e assumersene la responsabilità richiede un lavoro su di sé e una maturità che purtroppo non sono garantite né in famiglia né a scuola. Anzi. Viviamo in una società che non solo non insegna e non indirizza verso un’assunzione di responsabilità e una consapevolezza del potere, proprio e altrui, ma tende semmai a privilegiare il “più forte” in senso lato, esaltando quelli che potremmo definire i tratti più “narcisisti”, o “psicopatici”, degli individui e dei gruppi.
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Se siamo d’accordo su questa premessa, ne consegue che:
– certi ruoli e certi tipi di relazione giustificano tra le persone l’esercizio di un certo potere, ma entro limiti e contesti ben definiti (il che vuol dire che tale potere rischia di essere abusante fuori dai contesti e dai limiti convenuti);
– tale potere implica un’autorità che richiede di essere riconosciuta, condivisa, accettata dalle parti; autorità data da un titolo professionale, da una formazione specifica, dall’osservanza di certe norme, ecc.
– tale potere comporta una assunzione di responsabilità da parte di chi lo esercita, che a sua volta richiede consapevolezza, presenza, autoregolazione;
– tale potere e tale autorità possono legittimamente essere contestati quando travalicano i limiti e i contesti convenuti: ovvero, quando chi li esercita ne abusa.
Quest’ultima affermazione ci porta a un’altra importante considerazione sul potere di chi non ha il potere (o ne ha meno) rispetto agli esempi citati.
- a) Alcune situazioni implicano che la persona che subisce il potere dell’altro, quando quest’ultimo ne abusa, non sia oggettivamente in grado di esercitare il proprio diritto di contestarlo.
Pensiamo a un bambino piccolo rispetto a genitori/adulti maltrattanti, a un malato terminale rispetto al medico e alla struttura ospedaliera che lo ospita, a un manifestante rispetto al poliziotto che lo prende a manganellate mentre è a terra.
In tali casi il diritto di contestare un eventuale abuso di potere spetta ad altri, che per ruolo o situazione siano a loro volta in grado di tutelare chi subisce tale abuso.
- b) In altri casi, è la violenza – la prevaricazione, la prepotenza, l’arroganza – con cui la propria forza viene esercitata da chi ce l’ha a impedire – oggettivamente – a chi la subisce di opporvisi.
Pensiamo a chi viene rapito, incarcerato, torturato, ucciso da un regime dittatoriale; alle vittime di tutte le “mafie” nel mondo; alle donne stuprate e violentate, da uomini singoli o in branco; ai ragazzini vittime di bullismo; ai prigionieri di guerra, ai carcerati massacrati nelle prigioni, ecc.
A tutte le situazioni in cui le vittime possono solo essere… vittime dei loro carnefici
- c) Ma in moltissimi casi la persona che “subisce” il potere altrui avrebbe – oggettivamente e/o sulla carta – il potere di contestarlo, tanto quanto ha o ha avuto quello di legittimarlo.
E sono i miliardi di casi – ovunque, ogni giorno, in ogni situazione, per ruolo, professione, relazione, rapporti di forze – in cui il potere viene esercitato tra individui che dovrebbero essere “alla pari” e nei quali chi ha il potere ne travalica i confini… spesso in modo sottile, sfumato, quasi invisibile. A volte “solo” con una parola, uno sguardo, un’espressione del viso, un piccolo gesto.
E chi subisce l’atteggiamento e/o l’azione di potere dell’altro non riesce a porre dei confini che tutelino il proprio potere. Con il risultato che, soggettivamente, quel potere non ce l’ha.
Sono i casi in cui non riusciamo a dire di no, non riusciamo a rispondere, a reagire, a controbattere. E com’è possibile?
Per paura, spesso nel timore di subire conseguenze, fisiche o psicologiche, ancora peggiori; per vergogna o imbarazzo, spesso giudicandosi colpevoli di aver “provocato” l’altro; per sfiducia nella possibilità di essere creduti e sostenuti, difesi, tutelati da un’altra autorità.
Pensiamo a quante situazioni conosciamo, in cui essere “dalla parte del potere” si traduce in abusi: per un politico, nel favorire un proprio parente o amico ai danni di un altro cittadino; per un burocrate, nel ritardare o accelerare una pratica; per un medico, nel far spogliare una paziente senza motivo; per un infermiere, nel non rispondere alla chiamata di un paziente allettato; per un insegnante, nel prendere in giro un allievo; per un terapeuta, nel fare battute fuori luogo a un paziente; per un poliziotto, nel prevaricare un fermato; per un avvocato, nell’accanirsi su un testimone; per un giudice, nel forzare una sentenza; per un carceriere, nel tiranneggiare un detenuto; per un’assistente sociale, nel vessare una famiglia bisognosa; per un giornalista, nello sbattere il presunto “mostro” in prima pagina; per un fotografo, nel violare la privacy, ecc. ecc.
E potremmo fare miliardi di esempi, di entità e gravità diverse…
Miliardi sono i casi in cui essere “dalla parte del potere” consente favoritismi a danno di qualcuno, che non può o non vuole ribellarsi; consente di invadere l’intimità di qualcuno, non solo sessuale ma fisica ed emotiva in senso lato; consente di intimidire, umiliare, offendere, svilire, molestare, danneggiare, insultare, oltraggiare, diffamare, ferire, nuocere, mortificare, degradare, punire, sottovalutare, sottomettere, deprimere, svergognare, avvilire, penalizzare, asservire, soggiogare, sconfiggere, confondere l’altro… impedendogli, di fatto, di reagire e/o rispondere.
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Ho volutamente citato una serie di esempi “macro” per definire una cornice teoretica più ampia possibile. E poter poi individuare alcuni esempi “micro”, che stanno però comunque all’interno di quella cornice.
Credo infatti, come dicevo sopra, che il “potere” – e il suo eccesso, quello che da sempre chiamo l’“arroganza del potere” – sia qualcosa che ci riguarda tutti, nessuno escluso.
E che i meccanismi – umani, troppo umani… – che portano all’abuso di potere, macro o micro che sia, vadano studiati non solo per contrastarli, denunciarli, sanzionarli e punirli, se è il caso, negli altri; ma per osservarli, riconoscerli, modificarli dentro di noi.
Che cosa induce l’essere umano, dunque, a cercare il potere? A volerlo, al punto da uccidere per ottenerlo? A rivendicarlo, a volte a costo della vita?
Mi trovavo, in luglio, in Sicilia, vicino a Cinisi, in provincia di Palermo.
Il paese di Giuseppe Impastato, il giovane che a soli 30 anni, il 9 maggio 1978, venne ucciso dalla mafia – per ordine del capo mafioso Tano Badalamenti, per giunta suo zio – per averne pubblicamente denunciato i misfatti. Vicenda che molti conoscono per essere stata narrata nel film I cento passi di Marco Tullio Giordana, uscito nel 2000.
Una vicenda emblematica di “arroganza del potere”. Ma anche, per una volta, di capacità di dire di no. La famiglia di Peppino, infatti, a cominciare dalla madre Felicia e dal fratello Giovanni, si è battuta per anni per fare emergere la verità, nonostante l’insabbiamento dei fatti da parte delle autorità competenti, colluse con la mafia, che sostenevano la teoria di Peppino terrorista, morto mentre cercava di fare un attentato sulla ferrovia Palermo-Trapani… La stessa notte in cui venne fatto trovare il cadavere di Aldo Moro in via Caetani a Roma.
A 22 anni di distanza dall’omicidio, il 6 dicembre 2000, il comitato costituito nel 1998 dalla Commissione antimafia – su richiesta di un gruppo di parlamentari guidati dal senatore Giovanni Russo Spena – pubblicò una relazione con le sue conclusioni, arrivando ad ammettere la verità dei fatti: che vi era stato depistaggio da parte delle autorità e che Peppino Impastato era stato ucciso dalla mafia.
Cito questa vicenda perché mi ha sempre colpita molto. È l’esempio di una capacità – quasi eroica, a dire il vero – di dire NO! di fronte alla violenza. Vuol dire superare la paura delle ritorsioni, la paura di morire. Vuol dire andare contro l’omertà. Andare contro l’istinto stesso di sopravvivenza, in nome di princìpi e di valori che assurgono a priorità anche sulla vita dei singoli. Vuol dire sacrificare il particolare, l’individuale, in nome del collettivo, di una realtà più grande.
Non è da tutti. E infatti la stragrande maggioranza non ci riesce. Tace per difendere sé e le proprie cose, la propria famiglia, il proprio territorio. Tace perché il sacrificio richiesto è troppo grande, è insostenibile.
La mafia si basa su questo. E, come ben dice Giovanni Impastato, fratello di Peppino, nel libro Oltre i cento passi (Edizioni Piemme 2017), il problema non è solo la mafia ufficiale, la mafia storica, la mafia organizzata.
Il problema più ampio è quello dell’atteggiamento mafioso. Che è un modo di essere, che è una vera e propria cultura del potere. Una collusione tra illegalità e legalità.
«Sono mutate le dinamiche e anche le persone, che hanno dato vita alla cosiddetta “borghesia mafiosa”» dice Giovanni a pagina 63. «I mafiosi hanno indossato abiti eleganti e colletti bianchi, si sono “ripuliti”, dando alla mafia un volto non più riconoscibile a vista d’occhio, ma che si confonde con la Cosa pubblica, diventando, a volte, normalità. Tanto che sembra che la mafia non ci sia più».
Al punto che chi non è mafioso alla fine convive con la mafia senza più accorgersene, non ne sente nemmeno più il potere e se ne fa involontariamente complice, per il solo fatto di lasciare che le cose continuino così. Non si rende nemmeno più conto di esserne, sempre e comunque, vittima.
Tutto questo, evidentemente, è possibile quando il potere che sta più in alto, il potere che avrebbe il potere di intervenire e dire “basta!”, non lo fa. Quando i vertici guardano dall’altra parte, per semplice ignavia o perché, in qualche modo, ne traggono a loro volta un qualche vantaggio.
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L’esempio dell’atteggiamento mafioso – che riguarda un certo tipo di potere – mi serve per arrivare al cuore della mia riflessione e parlare dell’atteggiamento abusante.
Ho parlato di esempi “macro” di abuso di potere.
Ma nel nostro quotidiano, dicevo, siamo immersi in miliardi di esempi micro, che hanno a che fare con una vera e propria “cultura del potere”. Una cultura diffusa, sostenuta da una società i cui valori ampiamente tollerati sono ancora collegati – in questo siamo rimasti quasi uguali all’uomo di Neanderthal – alla legge del più forte.
La differenza, semmai, è che tali valori vengono ufficialmente, almeno in certi contesti, combattuti. Esistono le Costituzioni, i Codici civili e penali, gli Statuti, i Codici deontologici… Ma poi esiste la realtà dei fatti. La realtà dei piccoli poteri conniventi. La realtà delle situazioni di comodo. La realtà dei piccoli abusi che troppo spesso passano sotto silenzio.
Qualche esempio?
In una scuola elementare pubblica di Milano, l’anno scorso alcuni maestri, in diverse sezioni della scuola, maltrattavano gli allievi. Davano scappellotti e sberle a chi sbagliava i compiti. Scagliavano cartelle e sedie contro le pareti quando qualcuno chiacchierava. Urlavano e insultavano chi non era attento. Incoraggiavano gli allievi preferiti a denunciare i compagni disubbidienti.
Sono stati “scoperti” perché qualche allievo ha cominciato a parlarne in casa, a raccontare questi comportamenti alla mamma o al papà. Ma altri – a cominciare da chi ne era stato vittima – hanno taciuto. Avevano paura della reazione dei genitori. Paura che parlarne si ritorcesse contro di loro. Paura di non essere creduti.
E altri, semplicemente, non li vivevano come un problema. Erano comportamenti “normali”. Forse perché erano abituati a osservarli in casa, in famiglia. O semplicemente perché certe cose, se fatte da un adulto, vanno bene: l’adulto è per definizione nel giusto.
E mentre alcuni genitori hanno denunciato i comportamenti maltrattanti e abusanti all’autorità competente – il preside, il provveditorato, la polizia –, altri no. Anzi, si sono schierati dalla parte degli insegnanti, accusando gli altri genitori di “andar contro” l’autorità, di voler “fare casino”, di istigare i propri figli alla disubbidienza.
E chi non ha mai sentito di professori e professoresse che si accaniscono contro la “racchia” o contro il “grassone” di turno, presi in giro dai compagni e già incapaci di difendersi per questo, e per giunta messi alla berlina da chi dovrebbe difenderli e non lo fa, ma anzi si diverte a sottolineare i loro mutismi durante l’interrogazione, il loro congelarsi quando vengono ripresi, il loro pianto quando vengono stigmatizzati? E per giunta sostengono che tutto questo è educativo?
E in casa?
Che dire dei genitori che per “far capire la lezione” ai propri figli li chiudono a chiave in qualche stanza o in qualche sgabuzzino, lasciandoli soli, o al buio? Che li lasciano piangere tutte le loro lacrime fin quando si placano esausti? Che li puniscono umiliandoli davanti a tutti? Che li prendono a sberle a ogni risposta inadeguata, a ogni “no” che in quanto tale va represso e inibito perché non riconosce l’autorità?
E in ambito “terapeutico”?
Ci sono dei ginecologi che fanno battute “amichevoli” alle proprie pazienti, e mentre sono sedute a gambe aperte per farsi visitare – una posizione che di per sé, com’è facilmente immaginabile, crea una ulteriore disparità di potere, al di là di quella dettata dal ruolo medico-paziente – fanno commenti sulla grandezza della loro vagina o la lunghezza dei capezzoli…
Tali commenti, per quanto “amichevoli”, sono abusanti. E lo sono a prescindere. Anche se le pazienti in questione fanno finta di niente, o tacciono perché si vergognano a ribattere, o non osano mandarli a quel paese. E non osano, a maggior ragione, denunciarli all’Ordine professionale.
Oppure ci sono dei terapeuti che fanno battute “amichevoli” alle proprie pazienti in sessione, approfittando dell’intimità che si crea nella relazione, un’intimità fatta non di nudità corporea ma di nudità dell’anima. E sarebbero pronti a giurare che sia solo un modo di dire, o una “provocazione” a fin di bene, al massimo una terapia d’urto in grado di smuovere certe ostinate resistenze. Tutto, secondo loro, è “terapeutico”.
Ma alcuni passano anche all’azione, dalle parole ai fatti.
E le pazienti, soprattutto se giovani e carine, non osano dire niente. A volte sono prese dal dubbio e pensano che l’altro – l’autorità, l’esperto, la persona competente – abbia per forza ragione. Che non possa se non volere il suo bene. Che metta sempre e comunque i bisogni e i diritti dell’altro in primo piano.
E in ogni caso, a chi rivolgersi? Chi ci crederebbe? La parola dell’autorità, per definizione, conta di più.
E sul lavoro?
Che dire di coloro che passano accanto alla scrivania delle colleghe e ritengono di avere il diritto di fare osservazioni sulla loro vita privata, o di ascoltare le loro telefonate, o di soffermarsi sulla loro scollatura, o di toccarle mentre passano in corridoio e non si peritano di mettersi in discussione, né quando tali comportamenti vengono respinti né, tanto meno, quando chi li subisce non risponde o reagisce?
Per non dire dei “capi” che in quanto tali possono permettersi di trattare in modo ambiguo segretarie e assistenti, spesso nella convinzione che “tanto ci stanno”, o “in realtà a loro piace”.
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Tutto questo – i miliardi di esempi che potremmo fare in proposito – diventa ogni giorno normalità. Normalità perché anche chi è vittima di certi comportamenti finisce coll’accettarli come “effetti collaterali”, conseguenze secondarie e inevitabili di relazioni in sé buone e giuste. L’eccezione al comportamento corretto si perde, o meglio perde valore, non fa testo, va bene così, non importa.
Perché l’omertà su certi comportamenti è anche legata al fatto che in molti casi chi li mette in atto è, per altri aspetti, “buono” o “bravo” o “simpatico”. Che gli stessi comportamenti, in molti casi, in altri contesti, sarebbero leciti. Ed è quella situazione specifica, in quel ruolo specifico, in quel delimitato contesto che non vanno bene.
In molti casi – i più sottili, i più difficili da capire e far capire – è il modo in cui vengono dette le cose, le parole che vengono usate, il gesto che le accompagna, l’espressione facciale o lo sguardo, a essere troppo. A essere invadenti e invasivi… fino a essere offensivi o umilianti.
E sono invece i casi più frequenti, i casi in cui incorrono anche coloro che – pur consapevoli del problema macro, e che certe cose macro mai farebbero – a volte incorrono in “comportamenti micro”.
Come mai? Perché succede così spesso?
Perché perdono consapevolezza, perché scivolano in quella non presenza, non concentrazione, non attenzione che fa perdere di vista l’altro. La mancanza – a volte una “caduta momentanea” – di consapevolezza si traduce in mancanza di rispetto per l’altro nella relazione, nel qui e ora di quella specifica situazione.
Non vedere l’altro comincia proprio dal non vedere i confini dell’altro. Dal non vedere la disparità del proprio potere e del potere dell’altro, data dalla differenza di ruolo, professionale o familiare. Dal non vedere la disparità di forze in gioco, compresa l’eventuale incapacità di dire di no dell’altro, che è in sé una condizione di minor potere.
Ed ecco che il medico irreprensibile, di solito competente e premuroso, alla fine di una lunga giornata non coglie le difficoltà del paziente nel capire certe indicazioni farmacologiche, ne banalizza le paure, lo liquida frettolosamente minimizzando le sue richieste di spiegazioni.
E l’insegnante qualificata, di solito materna e accogliente ma stanca dopo ore di lezione, non tollera che un allievo continui a far domande e lo riprende in male modo, ironizza sulla sua disattenzione, sbuffa davanti a tutti con malcelato fastidio verso i suoi interventi.
E lo psicologo o il counselor, di solito impeccabile ed empatico, irritato da un cliente che arriva sempre in ritardo, glielo fa notare con asprezza, lo rimprovera per la sua continua pigrizia, gli rimanda senza accettazione o comprensione una sua fragilità.
E così via…
Il professionista, l’esperto responsabile che è uscito dalle regole, o ha perso la pazienza, o si è lasciato scappare una battuta, spesso nemmeno se ne accorge. Oppure, se se ne accorge, spesso non chiede scusa. E spesso giustifica il proprio comportamento. E l’altro – l’allievo, il paziente, il cliente – anche lui spesso nemmeno se ne accorge. Oppure, se se ne accorge, manda giù. E spesso giustifica il comportamento dell’altro. “Pazienza, non importa… Non lo ha fatto apposta.”
Tutto questo, lo sottolineo, manifesta una profonda mancanza di rispetto all’interno del contesto specifico in cui avviene, ovvero l’ambito professionale, nel quale la differenza di ruolo richiede, appunto, quella specifica attenzione e consapevolezza che in altri contesti, non professionali, non è altrettanto doverosa.
Un caso specifico è poi quello del genitore, che di fatto deve stare “nel ruolo” sempre.
Quante volte, in una caduta di consapevolezza, anche il genitore “sufficientemente buono”, di solito attento e amorevole ma che arriva a casa stressato dal lavoro, perde la pazienza e sgrida il figlio per qualcosa che non aveva fatto, o lo punisce immeritatamente, o gli dà uno scapaccione?
Non a caso quello del genitore è il “mestiere” più difficile del mondo, perché richiede di essere sempre “sul pezzo”. Richiede una “professionalità” che, lo dicevo all’inizio, la nostra società e la nostra cultura non offrono, dando per scontato che la natura e l’istinto provvedano. Ma essere genitori – non solo biologici, ma anche sociali – non è affatto scontato. E il malessere degli adulti che si portano dietro, negli anni, le conseguenze di quanto hanno vissuto nell’infanzia lo testimonia ampiamente.
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Se siete arrivati a leggere fin qui, avrete capito che sto parlando anche di noi. Di me. Di te. Di ciascuno di noi. Che siamo, a seconda dei casi, dall’una e/o dall’altra parte.
Perché tutti noi, nel corso della nostra esistenza, esercitiamo e subiamo potere. Tutti noi viviamo in una serie infinita di relazioni in cui, di volta in volta, esercitiamo potere – per ruolo istituzionale o familiare, oppure per situazione/condizione personale – o subiamo quello altrui.
Il “come” lo esercitiamo e/o il “come” lo subiamo dipende molto (anche) da noi.
E quindi ha senso che tutti, nessuno escluso, facciamo una riflessione sui nostri ruoli, sulle relazioni che abbiamo e sulle condizioni di fatto che implicano un potere.
Per far sì che l’atteggiamento abusante venga riconosciuto e combattuto alla radice. Perché non ci siano più scusanti. Perché nessuno possa più dire – dopo aver abusato di qualcun altro – “… tanto lei (o lui) era consenziente”.
L’illustrazione in alto è tratta da un disegno di Eric Drooker (New York 1958), dal titolo Censura.