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Intervista a Luciano Marchino

Bioenergetica e meditazione

Due vie che si incontrano

Intervista realizzata nel 2003 a Luciano Marchino, direttore di IPSO, Istituto di Psicologia Somatico-relazionale di Milano. Una parte dell’intervista è stata pubblicata sul settimanale “Soprattutto” del 31 ottobre 2003.

di Alessandra Callegari

Luciano Marchino

La meditazione fa bene, dicono anche le neuroscienze: ma cosa significa? E a quali livelli? La meditazione, così come praticata da millenni in Oriente, si integra in un contesto di cultura occidentale? Può essere un complemento a un percorso di introspezione e di conoscenza di sé come quello dell’analisi? Ne parliamo con Luciano Marchino, direttore dell’Ipso, Istituto di psicologia somatica e analisi bioenergetica di Milano. Allievo di Alexander Lowen, è autore di Bioenergetica (Xenia 1995).

Nel tuo libro sulla Bioenergetica a un certo punto parli di meditazione…

Ne parlo fin dalle premesse, quando dico che la psicologia occidentale non deve precludersi alla possibilità di accedere a tutto quello che hanno scoperto i ricercatori spirituali del passato.

…e soprattutto sei un meditatore, oltre che un analista bioenergetico. Come giudichi questa sorta di ‘moda’ attuale, per cui tutti parlano di meditazione

Da un lato è importante evitare l’ingannevolezza. Perché in questo momento in Occidente la meditazione è vista da molti come una scappatoia per non riconoscere il proprio bisogno. Si pratica la meditazione con un maestro, che non è uno psicoterapeuta, non è una persona cui ci si rivolge per aiuto, ma qualcuno che in fondo gratifica il proprio narcisismo. Vuol dire mettere la meditazione al servizio della struttura della personalità.  Fra l’altro ritroviamo questo nel libro La forza della meditazione di Daniel Goleman (nella foto), quando dice che i tratti dominanti della personalità sono poi quelli che ci riempiono di fattori positivi o negativi di fronte alla meditazione, di fronte alla vita, di fronte alla crescita.

daniel golemanLa meditazione come consumo, quindi?

Il pericolo è proprio questo, che la meditazione venga vista come l’equivalente di un orologio di Bulgari o di una Ferrari parcheggiata in giardino. ‘Ho meditato con il tal guru’ significa ‘sono stato invitato alla festa dove c’era la contessa tal dei tali’. La meditazione in sé non però è il passepartout che risolve ogni tematica, dipende da chi e come. E soprattutto, nella figura del meditante orientale sono raccolti una serie di elementi che non sono quasi mai presenti nel meditante occidentale. Gli orientali sono per lo più monaci, quindi all’interno di una gerarchia piuttosto rigorosa; hanno un riferimento che non si chiama psicoterapeuta, ma che è il maestro, e che tutto sommato ha una modalità di intervento che – vista con gli occhi di un occidentale – possiamo leggere come non particolarmente dissimile dalla qualità di intervento di un analista classico di formazione freudiana. Quindi interventi molto rari, molto essenziali, molto flemmatici, che lasciano in uno stato, si spera, di satori colui che accede a questo tipo di intervento. In altre parole, esiste un qualcuno che diventa responsabile delle tappe del processo. Cosa che in occidente difficilmente viene riconosciuto a un maestro, anche perché francamente in Italia i maestri sono pochissimi e non so quanto affidabili.

Ma parliamo invece di meditazione in senso vero, e non praticata per moda.

Fatta la premessa di cui sopra, senz’altro la meditazione è un momento estremamente importante di presa di contatto con il sé. Sé che gli occidentali – senza discuterne qui in modo particolare – vedono piuttosto come un sé mentale, mentre gli orientali lo vivono come più diffuso nel corpo, nell’organismo, anche se non c’è una vera identificazione del sé come un sé corporeo.

Quanto può darci la visione orientale, in questo senso?

La visione orientale è molto arricchente per gli occidentali, visto che siamo sempre più separati dal corpo e viviamo sempre più nella corteccia mentale, con una enorme prevalenza degli aspetti visivi su tutti gli altri aspetti della nostra capacità di relazionarci con il mondo. Quindi per noi qualunque forma di pensiero organizzato o di sequenza organizzata (chiamamole discipline o pratiche) che riporti dentro al corpo è innovativa. Anche se parlare di ‘innovativa’ per una disciplina vecchia di 4.000 anni può suonare inadeguato, diciamo che lo è rispetto a noi, oggi, in questa cultura. Un problema che si pone è semmai questo: se una forma di lavoro introspettivo è stata studiata in un’area geografica e in periodo storico particolari, possiamo pensare che rispondesse a quelle esigenze. E praticare ai nostri tempi una disciplina che era adatta per il meditante del 500 a. C. può lasciare perplessi…

OshoE infatti un maestro come Osho lo aveva capito bene…

Sì, e infatti aveva messo insieme – visto che buona parte dei suoi praticanti erano occidentali, e in molti casi bioenergetici o reichiani – una serie di metodi adatti appunto agli occidentali. Non molti pensatori sono riusciti, come Osho, a creare dei ponti tra pensiero occidentale e orientale e a creare una forma di pratica che non sia semplicemente una cosa esotica da far provare una tantum ai palati più raffinati ma che costituisca un potenziale punto d’incontro tra due culture. Tenuto conto che gli occidentali, per poter entrare nel corpo, nella sensazione, nel sentimento, sono costretti a fare un salto di qualità molto maggiore che non gli orientali.

E a lavorare molto di più proprio sul corpo...

Infatti.. Da qui il bisogno di mobilizzare, di alleviare, il peso del karma o se vogliamo dell’armatura caratteriale (che sono per me funzionalmente identici o quasi). E questo lo si può fare con una pratica che sia più inerente alla struttura psicocorporea di un occidentale. Ecco perché nel nuovo depliant dell’Ipso c’è scritto, dietro Radix, ‘la nuova tradizione’: è il tentativo di introdurre, all’interno di una pratica laica e nata come complemento della psicoterapia, un potenziale sentiero autonomo che fondi una tradizione adatta agli occidentali. Non semplicemente importare un prodotto e condizionarci all’uso di esso, ma cercare di comprendere quali sono le necessità del qui e ora, della zona in cui siamo cresciuti e di cui abbiamo respirato l’aria dai primi giorni, e proporre una disciplina che sia adatta a tutti noi, a me e al mio vicino di casa.

Quindi sì alla meditazione, purché venga proposta nel modo giusto?

Sì, e in questo momento va bene anche l’importazione di sistemi meditativi orientali e arcaici, anche perché questo ci indica quale sarebbe una situazione quasi ottimale, quando con una stimolazione ambientale ragionevole, non sopraffattiva come in questo momento storico, la persona alla fine della sua giornata si siede sulle sue caviglie e semplicemente sta con se stessa e ascolta il proprio corpo. Cosa che credo fosse abbastanza comune in Cina e in India, nel senso che il contadino, quando rientrava dalla sua difficile giornata di lavoro, non aveva una televisione o una moglie che si lamentava del governo… Semplicemente ascoltava se stesso.

In questi ultimi tempi sono usciti parecchi articoli che rimandano a un libro recente (Meditazione psiche e cervello, di Francesco Bottaccioli, psiconeuroendocrinoimmunologo) e a quello di Goleman Emozioni distruttive, dove si parla degli esperimenti fatti, utilizzando meditatori buddisti, per verificare che cosa cambia nelle varie aree del cervello, usando metodi ‘occidentali’ di verifica classica, strumentale. Questi esperimenti servono? Possono dimostrare agli scettici che la meditazione è utile, che qualcosa di diverso, effettivamente, succede?

Che qualcosa di diverso succeda è accertato. Sen’altro si attivano dei neurotrasmettitori diversi, delle aree cerebrali diverse. La cosa che sarebbe semmai da verificare – ma la verifica dovrebbe essere di tipo soggettivo e quindi attraverso questionari e non attraverso grafici o luminescenze – è proprio come le persone si sentono alla fine di una sessione. E credo che sarebbe fortemente significativo differenziare una pratica monastica da una pratica laica, nella vita quotidiana, nostra, tua e mia. Nel primo caso, non c’è bisogno di andare a cercare dei meditanti buddisti o tibetani: anche se fanno l’elettroencefalogramma a una suora mentre dice l’Ave Maria è possibile dimostrare che ci sono dei cambiamenti. E tali cambiamenti avvengono verosimilmente nelle stesse aree cerebrali che dovrebbero ‘accendersi’ a seguito di uno stimolo erotico… Poiché questo non succede, la suora in questione si stimola attraverso altre modalità, la preghiera o la meditazione, che hanno effetti simili.

neuroscienze 1Concetto non facile da far digerire a tutti…

Certamente, data la cultura in cui viviamo. È importante, del resto, sottolineare che la scelta di vita monastica è una scelta di rinuncia al mondo, mentre quella di vita laica può essere una scelta di abbraccio al mondo. È l’immensa differenza tra la scuola meditativa di Osho, che è una scuola per laici in un sentiero di autorealizzazione, e quella per monaci, orientali o occidentali, poco importa.

Come presentare dunque la meditazione al grande pubblico?

Se vogliamo fare qualcosa che abbia un significato sociale dobbiamo anzitutto chiederci: che cosa può far bene alle persone se praticato abitualmente, e riportarle più in contatto con se stesse, mentre l’insieme dello sviluppo sociale tende a dissociare gli individui in maniera sempre più irreversibile dalla propria umanità? Se vogliamo fare qualcosa che implichi non una nicchia, un ambiente particolare come quello dei monaci, ma una situazione di ben diverso respiro, i dati forniti dalla scienza occidentale ci possono servire, ma essenzialmente per il loro valore seduttivo. Perché il fatto che ci sia in giro nel cervello quel certo neurotrasmettitore o che si attivi questa o quell’area cerebrale non ci dice qual è il vissuto interiore della persona che sta meditando né qual è il contenuto della sua esperienza.

Esperimenti, insomma, finalizzati a ‘sedurre’ il grande pubblico, più che a insegnargli davvero qualcosa?

Siamo nella società del dubbio: per cui non ci si fida del fatto che il signor tal dei tali o il monaco tal dei tali sia in un’esperienza meditativa o estatica se non gli si infilano dieci centimetri di ago in una mano, scoprendo che non fa neanche una piega… Il che tra l’altro mi farebbe dubitare sulla desiderabilità di questo tipo di meditazione, perché vorrebbe dire non essere più in contatto con il proprio corpo, ma semmai star ritirando la propria attenzione dal corpo per dirigerla altrove. Altrimenti, figuriamoci se mi faccio mettere un ago nella mano! Se qualcuno ci prova con un bioenergetico, si batterà a morte perché questo non accada.

Insomma, le neuroscienze stanno sottolineando – e lo stanno facendo con degli strumenti tali da rendere incontestabili le loro affermazioni – che esiste una relazione biunivoca tra mente e corpo, e quello che accade all’una in un modo accade all’altro in un altro modo.

È un dato irrinunciabile, fondamentale e che avvalla tutti i sistemi di ricerca meditativa orientale o di psicologia somatica occidentale. Ma la qualità di queste esperienze e il fatto che l’individuo occidentale le possa davvero raggiungere è molto diversa a seconda dei metodi. Io credo che, per fare un esempio a noi vicino, ci sia un’immensa differenza potenziale di vissuti in chi fa un’ora di meditazione vipassana e trascorre forse 54 minuti a pensare, e chi fa un’ora di esercizi bioenergetici, anche in una classe di principianti, e trascorre molto meno tempo a pensare perché entra di più nel corpo. Alla fine di quella meditazione vipassana la persona è intatta dal punto di vista della propria armatura, e quindi del karma; mentre una persona che ha fatto una classe di esercizi è stata toccata a livello dell’armatura e da lì risponde.

escher due testeChe cos’è la meditazione per te, visto che la pratichi personalmente?

Per me è seguire ciò che sento giusto nel corpo. Il che significa prima di tutto che ho sistemato i bisogni fondamentali (fame sete e bisogno di andare in bagno), mi sono messo in un ambiente privo di stimolazioni esterne (stacco i telefoni, chiudo bene la porta), ho costruito in pratica un’armatura ambientale che mi consente di svestire in buona parte la mia armatura interiore. Non ho bisogno di vigilare sull’ambiente, che è protetto e diventa simile all’ambiente monastico, oppure a quello di una seduta di psicoterapia, visto che si presume che uno psicoterapeuta debba garantire questa protezione.

Questa è, diciamo così, la preparazione…

Sì, a quel punto cerco di sentire come sto nel corpo in quel momento, e quale parte richiama di più la mia attenzione. In genere le parti del corpo che richiamano di più la mia attenzione lo fanno attraverso forme di tensione o di dolore. Può darsi che non sia direttamente una parte del corpo ma uno stato dell’animo: ad esempio, mi sento ‘preso’ dai pensieri. E noto che la mia consapevolezza corporea non riesce ad andare al di sotto della nuca. So che ‘ho’ un corpo (ormai ho un livello di sentire il corpo abbastanza elevato), ma non ‘mi sento dentro’ il corpo: il corpo c’è ma non mi ci sento. A questo punto seguo non tanto delle cognizioni, quanto delle intuizioni sorrette da un sapere incorporato, cioè seguo quello che mi viene voglia di fare. E il sapere – ad esempio il sapere come si fa un esercizio – non si può definire cognitivo in senso stretto, perché non l’ho desunto da un libro – dove ad esempio leggo una riga e poi lo faccio, leggo un’altra riga e vedo cos’altro devo fare -, ma l’ho interiorizzato in decine, centinaia di ripetizioni.

Quindi è una forma di sapere che implica delle cognizioni corporee e non delle cognizioni mentali.

Sì, anche se il concetto di cognizione corporea è ancora molto poco delineato. Attraverso l’insieme di questi elementi – intuizione, cognizioni corporee e in misura molto minore consapevolezze mentali – mi lascio guidare fino a cercare la perdita delle consapevolezze mentali e uno stato di alterazione di coscienza che mi faccia sentire completamente intero. In questo stato di alterazione di coscienza posso essere molto calmo o molto eccitato (è importante sottolineare che l’eccitazione di cui parlo non si riferisce ai genitali, ma a una profonda, diffusa vitalità in tutto il corpo). A seconda dello stato di eccitazione o di pace al quale arrivo, dedicherò una seconda parte di questa meditazione a un ‘fare’ o a uno ‘stare’ che mi apriranno due mondi diversi: il ‘fare’ di solito porta a nuove forme di complessità e all’emergere di sentimenti e sensazioni profondi e ricchi, lo ‘stare’ apre di più a consapevolezza dell’animo e a una specie di visione, come una sorta di integrazione cognitiva.

Quanto alle singole pratiche di meditazione che svolgi – visualizzazioni, mantra o altro – mi par di capire che sono secondarie…

Sì, certamente. Quello che ho detto vale come discorso generale, a prescindere dalle modalità o tecniche specifiche, che possono variare di volta in volta.

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