di Alessandra Callegari e Alessandra Di Minno
Con una velocità sorprendente assistiamo e partecipiamo a una rivoluzionaria trasformazione del genere umano: da una parte all’altra del mondo, al di là di confini geografici, classi sociali, appartenenze culturali, la connessione attraverso media tecnologici è diventata esperienza universale. Esperienza che in una dimensione spazio-temporale trascende sempre più quella corporea, aprendo illusioni onnipotenti e allo stesso tempo mettendoci nelle mani uno strumento di conoscenza e di espansione sorprendente.
Mentre imperversano i dibattiti su costi e benefici, la tecnica/tecnologia diventa, fuori dal nostro personale controllo, prolungamento, se non elemento in-corporato, della nostra umanità e definisce un’inedita postura degli uomini contemporanei: gli iperconnessi.
Partendo da un termine coniato da Jean Twenge – che analizza i giovani di oggi, i cosiddetti iGen, nati negli anni zero del Duemila e cresciuti costantemente connessi, immersi negli smartphone (iPhone in particolare) e nei social network – osserviamo infatti che la rete ha preso ormai del tutto il sopravvento sui rapporti faccia a faccia. E se i giovani ci appaiono sempre meno pronti ad affrontare la vita reale, che dire delle generazioni precedenti – i Millennials o Generation Me, nati negli anni Ottanta e Novanta, e prima ancora la Generazione X, quella dei nati tra il 1960 e il 1980 – che a Internet si sono dovuti collegare quasi per forza, per non restare indietro e apparire dei dinosauri?
Nell’analisi di Twenge la iperconnessione, ovvero la scelta del cellulare come passatempo egemone a discapito di altre attività, va di pari passo con la incorporeità e il declino delle interazioni sociali personali, con l’isolamento e il disimpegno, con un senso di incertezza e precarietà, soprattutto rispetto al lavoro, a una forma di immaturità, ovvero la tendenza a prolungare l’infanzia oltre le soglie della adolescenza.
Quasi sembra un percorso al contrario, quello che dagli anni ’60 indicano discipline scientifiche diverse, raggruppabili sotto il cappello delle neuroscienze, nella loro affermazione unanime della natura imprescindibile e imprescindibilmente corporea del nostro bisogno di connessione con i nostri simili! La scienza ci porta sempre maggiori evidenze del fatto che la mente è corpo… e noi diventiamo sempre più virtuali!
Come sottolinea lo storico Yuval Harari, “Le comunità reali hanno una profondità che le comunità virtuali non potranno mai avere, almeno non nel prossimo futuro. Nell’ultimo secolo la tecnologia ci ha allontanato dal nostro corpo. Abbiamo perso la capacità di prestare attenzione a ciò che annusiamo e assaggiamo. Siamo rapiti dagli smartphone e dai computer. Ci interessa più quello che succede nel ciberspazio che quello che succede davanti a noi. (…) Distaccati dal corpo, dai sensi e dall’ambiente fisico, gli esseri umani si sentono sempre più alienati e disorientati. Secondo gli esperti questo senso di alienazione è legato al declino della religione e del nazionalismo, ma probabilmente la perdita del contatto con il proprio corpo è ancora più importante. L’umanità è vissuta per milioni di anni senza religioni e senza nazioni, e probabilmente potrebbe farne felicemente a meno anche oggi. È impossibile, però, essere felici se si è scollegati dal proprio corpo. Se non ci sentiamo a casa nel nostro corpo, non ci sentiremo mai a casa nel mondo.”
Non solo: presi come siamo nella corsa per sconfiggere i nostri limiti umani, la convergenza delle tecnologie biologiche e informatiche ci mette oggi di fronte alle più grandi sfide che l’umanità abbia mai affrontato: superare Homo Sapiens diventando Homo Deus. Ma è una pretesa illusoria, tanto più in quanto va nella direzione contraria rispetto a quel profondo bisogno di contatto che ormai tutti i professionisti della relazione d’aiuto, a prescindere dall’approccio di partenza, indicano come fondamentale da soddisfare per qualsiasi essere umano.
Ed eccoci infatti a interrogarci, da professionisti, sul nostro possibile contributo a una ridefinizione, ancor prima esperienziale che teorica, dell’“essere connessi”. La Bioenergetica e, in generale, gli approcci che privilegiano la mediazione corporea, nascono storicamente con l’intento di rimettere al centro la corporeità, intesa come dimensione integrata e non separabile. E come dimensione in cui entrambi i protagonisti della relazione – il terapeuta/counselor e il paziente/cliente – mettono in campo il corpo. Come diceva Alexander Lowen, “La comprensione è un processo di empatia che dipende dalla risposta armonica di un corpo a un altro corpo…”. Negli anni, diversi approcci psicologici si sono avvicinati a questo centro corporeo, riconoscendo il nostro funzionamento sistemico e collegando il dis-funzionamento alla perdita di integrazione emotiva, corporea, cognitiva.
Che cos’hanno da dire oggi questi approcci, quale interpretazione teoretica ed esperienziale di connessione ci propongono, che tenga conto sia della natura sia della cultura e possa espandere e ri-umanizzare la più moderna accezione di connessione? Come può il counseling, che si pone accanto all’uomo contemporaneo cercando di stare al suo passo e ritmo, entrare in dialogo con la postura degli iperconnessi e riconsegnare un rinnovato contatto con sé, con gli altri e con il mondo?
Il convegno STAY TUNED, La mediazione corporea nella civiltà degli iperconnessi, si rivolge ai professionisti della relazione di aiuto e in particolare ai counselor con una giornata dedicata a una riflessione più che mai attuale: che cosa abbiamo da dire e proporre alla civiltà degli iperconnessi? Organizzato da Collage Counseling nell’ambito di Maratona Lowen – una serie di iniziative che si svolgono a Milano tra il 17 e il 19 maggio 2019, in occasione della presenza in Italia di Frederic Lowen, figlio di Alexander e direttore di The Alexander Lowen Foundation – è aperto a tutti coloro che abbiano voglia di conoscere la Bioenergetica attraverso Alexander Lowen e, oggi, suo figlio Frederic che, in modi diversi, ha assunto lo stesso impegno di indicare una via e una visione.