Cambiare l’educazione per cambiare il mondo
di Alessandra Callegari
Questa è una intervista da me fatta a Claudio Naranjo a Bologna il 25 settembre 2003, in occasione di una sua conferenza sull’educazione. Una parte dell’intervista è stata pubblicata sul settimanale “Soprattutto” del 31 ottobre 2003, per il quale all’epoca lavorarvo come caporedattore.
Ho letto i suoi libri, quelli pubblicati in italiano, e in particolare La via del silenzio e delle parole, dove fa un collegamento tra meditazione e i diversi enneatipi. Questo discorso lo ha poi continuato e approfondito?
Confesso di non avere investigato sistematicamente questo aspetto. Avrei potuto farlo di più osservando le persone che frequentano i miei corsi, ma la forma nella quale insegno meditazione non è individuale Non ho avuto tempo per fare esperimenti di questo genere, e per insegnare in modo diverso a meditazione alle a diverse persone: solo a poche persone do indicazioni personali al di là della base comune. E poi c’è da dire anche che ho molta fiducia nell’insegnamento tradizionale buddista e non ho voluto cambiare questo approccio universale con la pretesa di migliorarlo, come se la mia idea fosse più efficace.
Forse è vero, per esempio, che per un due nell’enneagramma è necessario seguire in modo particolare il lasciarsi andare, ma anche se è possibile che questo sia vero non ne sono sicuro e quindi potrei far perdere del tempo a una persona indirizzandola in questo senso. Forse Buddha aveva più ragione di me, pensando che è meglio per tutti cominciare con il vipassana, che è semplicemente la consapevolezza dell’istante, del qui e ora, e poi con la pacificazione della mente. La combinazione di vipassana e di shamata, della tensione con la trascendenza del pensiero, è una proposta che vale per tutti. E poi ci vuole molta assunzione di responsabilità per fare esperimenti.
Quindi non ha provato a prendere enneatipi diversi e a verificare la differenza?
No, non l’ho considerato un mio compito. Cerco di fare del mio meglio, ma un interesse nella ricerca potrebbe interferire con il mio lavoro e con la priorità di assistenza. Faccio ciò che mi sembra meglio per un gruppo nel suo insieme, mentre questo tipo di sperimenti andrebbero fatti individualmente. Nei gruppi sono rappresentati tutti gli enneatipi, ma io do la stessa formula a tutti., non voglio interferire con la realtà dei singoli, né voglio influire su eventuali aspettative che questa formula sia migliore.
Quindi lei fa fare meditazioni basate sul metodo tradizionale buddista, usando vipassana e shamata… nel suo libro cita il dogzen come una delle massime espressioni di approccio alla meditazione nel buddismo tibetano. Utilizza anche queste tecniche?
Dogzen non è propriamente una tecnica, la cosa principale è mantenere un punto di vista, nella vacuità, o nell’atteggiamento secondo cui le cose sono tutte sogno, illusione. Si dice a volte che la maturità del Dogzen, come nel mahamudra, è la non meditazione: non si può dire che è un esercizio mentale, ma capire qualcosa che sta lì, che è già presente. Quindi avere l’insight che già uno è Buddha. Non c’è differenza tra persone che sono Buddha e persone comuni, che non lo sono: l’unica differenza è che alcuni lo sanno, e gli altri no.
Lei ha parlato di Reich e della bioenergetica: può essere un buon aiuto, una buona premessa per dedicarsi alla meditazione? Lavorare sul corpo in questo modo può essere utile oggi, soprattutto per l’uomo occidentale?
In principio sì, Reich ha scoperto la kundalini, ed è valido dire che la interferenza alla libertà interiore è collegata a un karma più denso a livello corporeo, è legato cioè al fenomeno della armatura fisica e alla rigidità del carattere, ma devo aggiungere che conosco persone che praticano bioenergetica anche ad alto livello e a volte parlano di liberare tutti i segmenti con una fronte aggrottata, come se non avessero liberato nulla. Sono poche le persone che si liberano veramente, che sciolgono l’armatura, fanno anni e anni di lavoro, corsi su corsi, ripetendo sempre gli stessi processi: e succede anche in analisi. Io non ho incluso la bioenergetica nel mio mosaico, perché la ritengo antiquata oggi, penso che ci siano altri modi oggi, più eclettici, di lavorare nel corpo in modo più efficace
Per esempio?
La maggior parte di questi lavori non hanno nome, ci sono persone di talento particolare che usano un po’ di tutto, dall’eutonia al rolfing. Il lavoro corporeo in realtà richiede un proprio talento, non è legato a una specifica idea o ideologia.
Ha conosciuto personalmente Lowen?
Abbiamo fatto un workshop insieme negli anni Sessanta. Mi erano interessati i suoi libri, ma quando l’ho conosciuto mi è sembrato una prima donna intollerabile. E poi non ci siamo più visti.
A proposito di Reich e del suo discorso sull’educazione, circa la possibilità di fare emergere il bambino nella triade padre madre figlio, mi ha fatto pensare al discorso di Reich sui bambini del futuro. Egli era molto interessato a dare ai giovani un’educazione che tenesse conto della loro naturalità. Lei si ritrova in questo?
Non ricordo il discorso di Reich sull’educazione dei bambini. Ma mi ritrovo molto nel suo atteggiamento di partigiano dell’istintività. E la sua idea che l’antagonismo al piacere sessuale sia molto maggiore nei regimi totalitari è una buona osservazione, lui ha vissuto al tempo del nazismo, quel che dice è vero. Lo spirito patriarcale è uno spirito dominatore, non solo delle persone ma anche della natura. L’idea del dominio della natura esterna va di pari passo con quella del dominio della natura interna.
Tornando alla meditazione, visto che lei parla soprattutto di tecniche buddiste, pensa che l’uomo di oggi, stressato e iperstimolato, possa riuscire facilmente a utilizzare un metodo come la vipassana, e in generale dei metodi di meditazione che presuppongono la capacità di estraniarsi dal mondo, di entrare dentro di sé, o c’è bisogno prima di fare altro, di muovere il corpo e l’energia?
È un aiuto per molti. La parte emozionale e l’aspetto spirituale sono molto intrecciati. Alcuni dicono ‘non posso meditare, ho troppo problemi emozionali’, hanno bisogno di terapia prima di poter meditare. è vero, ho conosciuto persone quando sono arrivato in California a metà degli anni Sessanta, che avevano fallito nella terapia, non avevano avuto risultati, mentre la meditazione ha funzionato per loro più della terapia. il punto di entrata insomma è variabile. Ma io credo che il meglio sia combinare le due cose: il mio lavoro è proprio combinare elementi di terapia e di meditazione, lavorare sui due fronti.
Non personalmente.
Osho ha fatto un po’ questo, ha creato tecniche di meditazione che nella prima parte lavorano sul corpo e sull’energia e nella seconda consentono di andare dentro di sé.
Ho pubblicato un libro molti anni fa che si chiama Psicologia della meditazione in cui parlo di meditazioni concentrative, del lasciarsi andare e della dinamica. Credo che Osho abbia preso da lì questo nome: non so se sia una coincidenza o no, però in un suo libro, in cui rivela le sue fonti di ispirazione, cita proprio me e Carl Rogers tra gli occidentali. Anche nella meditazione interpersonale, che è alla base del mio lavoro: estendere la situazione meditativa nel contatto a due. Dei miei allievi di Berkeley nel 1971 erano andati in India a Poona e avevano insegnato questo, tanto che era diventato il pane quotidiano.
Anche nell’educazione una grossa parte può averla la meditazione? L’insegnamento della meditazione nelle scuole è possibile?
Non necessariamente attraverso la parola. L’invito è a capire che cosa succede qui e ora. Ha letto il potere di adesso di Eckart Tolle? Un grande libro, e con questo linguaggio si può entrare nelle scuole. Si privilegia tanto il pensare, senza darci il permesso di semplicemente stare lì, la coltivazione dello stare lì. Ma i bambini sono in grado di capire, sono più aperti dei grandi, sono naturalmente portati a essere nel qui e ora. Anche a esperienze di immaginazione creativa e di trance. Si può lavorare con ,i bambini attraverso racconti, fiabe.
In America hanno lavorato con lei anche Almaas e Faisal, che hanno portato gli enneatipi nel loro lavoro…
Io non ho completato la presentazione degli enneatipi in America, ho lavorato lì un paio d’anni e fatto solo la parte più psicologica, così quando ho parlato delle idee sante, l’aspetto più spirituale, non ho fatto in tempo neanche a presentare le virtù, che adesso insegno normalmente, perché stavo esplorando uno sviluppo più ampio in quel gruppo, senza fretta. Almaas poi ha scritto un libro su questo, Facets of unity, basato su delle cose che avevo detto io in modo non sistematico, Credo che non volesse però più di tanto mostrare ciò che aveva imparato da me, soprattutto all’inizio voleva apparire diverso. Ricordo che mi aveva chiesto un parere, perché dopo aver studiato fisica aveva deciso di tornare in Quwait a lavorare e mi aveva chiesto che cosa fare là. Gli avevo detto di dire che aveva imparato da me una forma di sufismo californiano. E lui fece così, e pare che ebbe successo, come mi ha detto lui stesso poi. Ma quando è tornato in California ha cominciato a voler insegnare e ha preferito non dire che aveva imparato da me, ma da alcuni sufi del Quwait. E ha chiamato la sua scuola Ridhwan, con un termine arabo. Era molto interessato all’essenza, e infatti poi ne ha tratto un approccio suo, originale.