Lo scandalo di “essere” corpo
di Attilio Gardino
Pubblico questo testo, frutto della trascrizione da me fatta di una conferenza tenuta dallo psicoterapeuta bioenergetico Attilio Gardino a Milano il 9 giugno 2004, organizzata dall’Associazione Abipso di cui allora facevo parte, perché è di profonda attualità.
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Ho scelto questo argomento – amore morte e violenza – perché ho da poco riletto delle cose su questo tema che mi hanno ‘dolorosamente entusiasmato’ e mi sono interrogato sui motivi per cui faccio lo psicoterapeuta. Oltre alla necessità di lavorare, un motivo è di tipo ideale ed è legato al mio essere sociale, al mio essere nel mondo: è la possibilità di modificare qualcosa che dapprima ho incontrato nella mia storia e poi ho scoperto in modo sempre più articolato e profondo nella storia del gruppo al quale appartengo, gli esseri umani. Dirò cose ovvie, persino banali. Come Wilhelm Reich, che nell’Analisi del carattere utilizza le parole di Goethe – la cosa più difficile da scoprire è ciò che abbiamo sotto la punta del naso – io ricordo che l’unico a non conoscere l’acqua è il pesce. E alle volte ho appunto la sensazione che gli unici a non conoscere la violenza in cui siamo quotidianamente immersi siamo proprio noi.
Ascoltando le parole di chi parla delle proprie esperienze corporee in bioenergetica – ‘lavorare sul corpo’ – trovo che c’è in esse un livello di violenza inaudito; eppure il fatto che si possa ‘lavorare’ sul nostro corpo non produce scalpore: questa affermazione così violenta è così banalmente condivisa da tutti che credo nessuno l’abbia percepita con quel giusto sentimento di scandalo che dovrebbe suscitare. È una frase che ci parla di una dissociazione quotidiana, di una divisione, di una estraneità così radicata, da aggravarsi nella impercettibilità. Non ce ne accorgiamo perché così è formato il nostro linguaggio: non c’è altra frase che potremmo utilizzare per descrivere un’attività inerente noi stessi. Le parole che abbiamo costruito per comunicare le nostre esperienze testimoniano quanto sono comuni e condivise, e confermano questa abituale e ‘rassicurante’ divisione tra noi e il nostro corpo, tra noi e la nostra identità. Alexander Lowen, che è il fondatore della bioenergetica (anche se direi che il primo è Reich) fa un’affermazione che potremmo chiamare scandalosa quando dichiara che “noi siamo il nostro corpo”, o “la persona è il suo corpo”. Eppure non abbiamo parole per descrivere questo fatto: è completamente fuori dalla nostra esperienza. Chi lavora con la bioenergetica lavora con questo paradosso, che ci porta ad affermare qualcosa che non riusciamo a realizzare o che stiamo realizzando senza le parole per affermarlo. Perché nel momento in cui lo affermiamo smentiamo il nostro obiettivo: quando diciamo che “noi siamo il nostro corpo” e portiamo le persone a osservare o a lavorare sul corpo, smentiamo l’affermazione da cui siamo partiti.
Questo può sembrare un gioco verbale, ma lo utilizzo per affermare il fatto che siamo immersi in un clima di violenza, in una realtà di violenza, della cui complessità abbiamo però perso le tracce, mantenendole solo per episodi che hanno la qualità dello spettacolo. Nel momento in cui la violenza assume la dimensione dello spettacolo, infatti, può esser spesa pubblicamente nella comunicazione, ma solo attraverso questa ulteriore scissione: lo spettacolo come sapete si nutre di simulazione, è un gioco sul far finta, e quindi solo nel momento in cui noi immaginiamo una partecipazione alla violenza possiamo comunicarla. E credo che accendendo la televisione possiate percepire come – dalla guerra alla violenza sui bambini, a quella sulle donne – la trasmissione dell’informazione è trasmissione spettacolare. E come tale è violenza sulla violenza, è un’ulteriore scissione su una scissione che è specifica della violenza, che è qualità propria della violenza.
Qui apro un tema che ha attraversato i secoli e creato fazioni fra filosofi, tra scienzati e tra politici. Questa violenza è specifica del genere umano, l’uomo è cattivo di natura? Oppure è indotta, è l’ambiente che induce questa violenza? Erich Fromm, nella Crisi della psicanalisi, parlando della repressione della sessualità e della nascita del senso di colpa in ordine a un comportamento di repressione – sottolineo il termine, perché è lì che sta la violenza – di un comportamento biologico, dice che se si fa in modo che gli uomini si sentano intrinsecamente colpevoli, essi sono più facilmente controllabili. Ovvero, ha ovvi vantaggi politici per coloro che vogliono governarci. Queste affermazioni possono spiegare come il pensiero di Sant’Agostino sia così attuale.
È interessante riandare al quarto secolo della nostra era, epoca in cui accade un avvenimento estremamente importante: la religione cristiana passa dalla clandestinità all’ufficialità. Non è più ‘pensiero contro’, che si oppone al potere costituito affermando il libero arbitrio, la libertà di una visione differente dal potere di allora, ma passa da pensiero antagonista al potere a pensiero del potere. Costantino ne è il fautore, così come Sant’Agostino. E non a caso. Sant’Agostino si interroga sulla sofferenza e sul tema della morte (è stato colpito duramente nei suoi affetti, sono morti nell’ordine un amico, la compagna e la madre) e rimanendo completamente schiacciato dal dolore non riesce a dare un senso a tutto questo. Si chiede insomma se il dolore è imputabile a dio o agli uomini, e sceglie gli uomini, perché in questo modo riesce a salvare quel grosso pilastro della sua esistenza che era la fede in Dio. In che modo? Imputando la responsabilità della sofferenza, della perdita, della morte di queste tre persone care, per lui insostenibile, alla colpa degli uomini e in particolare ad Adamo, riesce a trovare sollievo al proprio dolore, in due modi: salva la fede e sdogana la sofferenza dell’impotenza di fronte alla morte, per legarla alla responsabilità di specie. In questo modo forse inconsapevole evidenzia quanto nel tema della morte l’elemento di più grossa sofferenza sia il senso d’impotenza, verso la quale l’uomo non è disposto ad arrendersi. Anche questo è un paradosso: affermare la possibilità di arrendersi di fronte all’impotenza. In realtà, di fronte all’impotenza l’unica cosa che possiamo fare è arrenderci all’impotenza. Ma non per l’uomo: l’uomo sceglie di trasformare una realtà biologica – la morte e il dolore a essa connesso – in una responsabilità di tipo morale. In questo modo riesce a recuperare la figura di dio e la potenza e il controllo sulla realtà.
Non che fossero tutti d’accordo, i cristiani di allora, su questa posizione. Giuliano Ecclanum ad esempio scrive: “Se dite che è una questione di volontà, non appartiene alla sfera naturale. Se è una questione di natura, non ha niente a che fare con la colpa”. Sarà una coincidenza, ma quelli che la pensavano così diventarono eretici. E non trovarono l’alleanza del potere, perché il potere era con Sant’Agostino. Forse allora ha senso il fatto che Fromm secoli dopo individui nel senso di colpa uno strumento importante che il potere utilizza per l’esercizio del controllo e quindi gestire il proprio potere. Se la colpa è ciò che viene individuato come strumento per combattere l’impotenza, chi, più e meglio del potere, può coglierne l’importanza? Uno psicanalista scozzese, Ronald Fairbain, la definì ‘difesa morale’, che ampiamente utilizziamo e che regolarmente s’incontra in ambito terapeutico: la scelta di preferire la colpevolezza all’impotenza. È una regola quasi aurea nei casi di stupro, nei casi di abu-so, ma anche, in termini più banali, nei casi di incidente; e si articola in un processo che in genere termina nello scoprire che se passavamo cinque minuti dopo non sarebbe successo, o ragionamenti simili. È una difesa che utilizziamo tutti e ci separa dai nostri aspetti biologici, in senso lato, per poter recuperare un potere superiore alle leggi del naturale. In questa negazione di appartenenza a noi stessi, cioè essere banalmente il nostro corpo, oggetti e soggetti della natura, parte di questo grande ciclo che ha in sé la morte e la vita, risiede la nostra illusione di potere.
Nei primi casi trattati, i 18 casi di isteria, Freud constata che alla base dell’isteria e di altre nevrosi c’erano abusi compiuti non da ‘bruti’ ma da persone vicine alle ‘vittime’. E lui si meraviglia, così come mi sono meravigliato io di incontrarli: non in sede terapeutica ma quando ho cominciato ad avere le prime relazioni intime con l’altro sesso, scoprendo come l’abuso sia ampiamente diffuso. In questa stanza, ad esempio, vi posso dire con assoluta certezza che una percentuale molto elevata di donne hanno subito degli abusi, e alcune anche violenze vere e proprie. Noi tendiamo a confinare queste cose lontano da noi, in tv o sui giornali, eppure è probabile che una persona abusata sia seduta accanto a voi. E non abusata o violentata dal bruto di turno ma dal padre, lo zio, il vicino di casa, l’amico fidato. E prima di fare questo lavoro l’ho scoperto da adulto che entrava in relazione intima con delle altre persone. Per mia fortuna in casa mia questo non è successo, e quindi mi si è aperto un mondo. Ma quante volte vi siete trovati a parlare dando per scontato questo evento? Quante volte nel vostro gruppo di amiche o tra le persone con le quali avete relazioni intime avete incluso questo tipo di episodi? La violenza di cui parlo è una violenza che ci circonda e nel momento in cui riteniamo che l’uomo sia un animale cattivo, a seconda dei punti di vista – nella visione teocratica perché ha tradito un’indicazione divina, in quella scientifica o filosofica perché è assimilabile al lupo – siamo tutti più sereni. Non ci scandalizziamo più di tanto, semmai ci chiediamo: come possiamo essere più cattivi per non essere danneggiati dalla cattiveria del nostro interlocutore?
Ma questa affermazione – l’uomo è un animale cattivo – ci permette soprattutto di negare l’importanza essenziale delle premure e dell’affetto che non abbiamo ricevuto, normalizza la quotidiana violenza che tutti noi genitori operiamo sui nostri figli. Non in termini di abusi, ma all’interno di un sistema di idee come quello che ritiene scientifico il modello fornito da validi e stimati professionisti che negli anni ’50 sostenevano l’allattamento a orari predeterminati, oppure quello di pediatri e pedagogisti che ritengono importante non viziare il bambino. Come se la carezza o la presenza fossero un ‘vizio’, o la norma potesse diventare un vizio. Ma dietro c’è un pensiero ancora più negativo, come se il bambino avesse una perversione propria, e a un mese d’età potesse immaginare apposta di mettersi a piangere, farsi scoppiare le vene, urlare dalla mattina alla sera, far diventare matti la madre o il padre.
Quando parliamo di potere, allora, non immaginiamo generali o presidenti del consiglio, ma rimettiamoci alla nostra realtà: un genitore esercita del potere nei confronti dei figli, ed è un potere – visto che l’acquario in cui noi pesci siamo immersi ha queste caratteristiche – che si nutre di scissione. Una scissione molto particolare, quella fra noi e le nostre funzioni biologiche, tra noi e il nostro appartenere alla natura. Un potere così scisso non può che vedere nel ‘rappresentante della natura’, il bambino, un antagonista, un esserino pervertito che punta la sveglia alle due di notte per tenere sveglia tutta la famiglia. E legittima un’altra forma di potere, quello accademico e scientifico, nel proiettare su questi bambini le proprie fantasie di violenza.
Ho sempre trovato molto divertente una battuta di anni fa in tv, che rappresenta in sintesi il processo di proiezione, molto meglio di tanti testi di psicologia: “non è vero che io sono razzista, sei tu che sei napoletano”. Ed è la modalità con la quale si sono costruite molte teorie sull’educazione del bambino, sul modo di trattare i bambini, il nostro corpo, noi stessi.
Tornando a Freud e alle sue 18 pazienti isteriche: dopo aver preso atto di questa scoperta ed esserne rimasto scandalizzato, Freud la porta a un convegno di psichiatri dell’epoca, ma è raggelato dal gelo con cui viene accolto. E nel 1920, con Al di là del principio del piacere, si raggela anche lui. E questo potrebbe spiegare come la psicanalisi è diventata una scienza ufficiale mentre Reich è finito in galera. Non solo è difficile parlare di qualcosa che è sotto il naso di tutti, è anche pericoloso. E il pericolo più grande non è di raccontarlo in una sala, ma in terapia.
Stare con la violenza che i nostri pazienti hanno subito è pericoloso: per il proprio stato di benessere e per l’equilibrio che non sempre si è raggiunto così stabilmente. Sant’Agostino infatti, dopo aver ideato quel suo pensiero sulla cattiveria umana, ottiene un notevole benessere, perché ha dato un senso a qualcosa che fino a quel momento non gli appariva sensato: e questo rassicura tantissimo, anche se è un senso sbagliato. Lavorare a contatto con la sofferenza di pazienti che non solo soffrono ma, paradossalmente, si rifiutano anche di guarire a causa di una violenza subita – e quando parlo di violenza non parlo solo di violenza attiva, ma anche passiva, di cose non ricevute – è destabilizzante per un terapeuta, perché non è mai sicuro fino in fondo di aver lavorato completamente sulle proprie storie di violenza. E tutta la tematica del controtransfer e del transfer – quel meccanismo che porta a riattivare nel presente scene del passato – è legata al rischio che il terapeuta incontra, in forma simbolica, di diventare un ulteriore violentatore del suo paziente o essere un violentato nella sua parte intima di ex bambino sofferente. Questo credo sia il meccanismo per cui, soprattutto alcuni anni fa, l’escamotage freudiano di aver estratto dal cilindro l’istinto di morte come distruttività propria dell’uomo, ha funzionato e continua a funzionare. Ci mette tutti al riparo: non abbiamo più bisogno di interrogarci su quanto partecipiamo a questo sistema collettivo di violenza e su quanto siamo in grado di uscirne attraverso un lavoro di ricomposizione di tutte queste fratture, la prima delle quali, nata 2.500 anni fa, è quella tra la nostra anima e il nostro corpo.
Tornando alla bioenergetica, non nega la morte. Ma un conto è la morte, che è un evento naturale, un conto è la pena di morte, che è la modalità con cu gestiamo un evento naturale. Qui il dibattito non è se esiste o non esiste la morte, è cosa ne facciamo, come ci relazioniamo con essa, dove la collochiamo. Se parliamo della morte parliamo della vita, se parliamo della vita parliamo del nostro essere (per fortuna) animali. E quindi della nostra parte ‘nobile’. Non c’è alcuna specie animale al mondo che abbia ucciso, solo nel secolo passato, 110 milioni di suoi simili. E alcuna specie che, nella ‘parte nobile’ del suo mondo, la famosa Europa culla della civiltà, abbia attivato almeno quattro-cinque ‘pulizie’ etniche. Così come nessuna specie animale ha eliminato nell’arco di alcuni decenni 70 milioni di persone, come è successo nelle Americhe: quello che tutti noi studiamo come un processo di civilizzazione è avvenuto a colpi di vaiolo e spade. Con questo, non dico che gli indios delle Americhe fossero brave persone e gli spagnoli cattive, non sto da una ‘parte’ o dall’altra, parlo di potere e di umanità.
Qualcuno obietta che in natura, fra gli animali, esiste la ‘selezione della specie’, e che questo concetto potrebbe essere applicato anche all’umanità, rispetto per esempio a civiltà che scompaiono. L’importante è vedere che tutti noi operiamo attraverso delle categorie che definiamo a priori. Quindi anche un termine come ‘selezione naturale’ è una categoria, non un dato di realtà. Come categorie preferisco usare quelle di Claude Levi Strauss, che colloca uno spartiacque tra natura e cultura: categorie non più vere, ma più efficaci. Poco fa, ho citato solo dei numeri, non precisi alle decine ma sufficientemente attendibili, che ci mettono in contatto non tanto con ‘natura’ o ‘non natura’, ma con ‘dichiarato’ e ‘negato’. Se parlo di civilizzazione delle Americhe e finché non ho letto certi testi non so che è costata 70 milioni di morti perché in tutto il mio percorso scolastico non mi è stato detto. Allora il problema diventa politico: questa informazione non è a disposizione. Il fatto che noi rimaniamo la culla della civiltà dopo un secolo così disastroso, mi sembra un fatto di negazione. O di diniego, come direbbe Stanley Cohen. E il diniego più grande è proprio quello della morte. Noi abbiamo eliminato la morte dalla nostra vita, non ne parliamo.
Mi viene in mente una paziente, tanti anni fa, che aveva un livello di angoscia spaventoso e mi raccontava che l’unico momento in cui aveva potuto stare tranquilla fu quando si trovò in contatto con l’ipotesi di una malattia mortale. Che, per fortuna, si risolse nel giro di quindici giorni con una diagnosi diversa. Questo però le aveva dato 15 giorni di estremo benessere, perché era una persona che aveva espulso dalla sua vita tutte le tracce di morte. Il non voler parlare della morte fa parte della scissione di cui stiamo parlando. Pensate alla parola Satana: il suo etimo è l’antagonista, il nemico, l’oppositore, una parola che ci rimanda alla divisione: il rappresentante del male per eccellenza è legato alla separazione, alla scissione. Lowen parla della scissione ricordando come l’allevamento dei figli brutalizzi i bambini stessi con tutta una serie di anticipazioni di separazione. E altri studiosi ci raccontano come la gelosia del maschio all’interno di una famiglia di ordinamento patriarcale intervenga come divisione nel rapporto madre-bambino.
Si tratta insomma di come viene gestita la morte. È un problema di tipo politico, sociale, non biologico. Ma bisogna fare attenzione: la psicologia si può proporre come l’ideologia del naturale, ed è la cosa più falsa che ci possa essere. Le falsificazioni sono terrificanti, nascono nelle parole, nei comportamenti, vi siamo così abituati che non le riconosciamo. E a proposito di parole e di linguaggio, pensate alla nostra arretratezza. Noi ancora, dopo secoli, continuiamo a dire che ‘il sole tramonta’ o ‘cala’, perché prima che si diffonda un linguaggio che tenga conto delle scoperte che vanno a codificare e caratterizzare la realtà ci vuole del tempo, e nel frattempo usiamo dei miti, necessari per orientare il nostro comportamento. Di nuovo, non abbiamo le parole: nel linguaggio quotidiano non diremmo mai “la terra ha fatto una certa rotazione sul suo asse e quindi è ora di andare a dormire”. Le parole sono il modo con cui noi rappresentiamo la realtà e abbiamo ancora in uso le parole di secoli fa. E su concetti più complessi siamo ancora più arretrati. Pensiamo per esempio a come non siamo capaci di parlare d’amore. Avete mai letto un romanzo o visto un film che vi parli di amore? Sì, forse qualche poesia che parla della ‘sofferenza’ dell’amore, o qualche piccolo brano che parla della gioia. A proposito di scissione, pensate come abbiamo scisso l’amore: diciamo “ti voglio bene”, “faccio l’amore”, “ti amo”. In Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, si dice che se scalfisci un pezzo del Buddha, tutto il Buddha muore. Io non so niente di buddhismo, ma credo che l’amore sia davvero una cosa unitaria e se non abbiamo la parola per dire “io corpo” – perché dobbiamo dire “io” e “corpo” e quindi spezziamo – sull’amore l’unico modo di parlarne è tacere.
Dicevamo prima dell’angoscia di fronte alla morte. In un certo senso, possiamo considerare l’angoscia un precursore dell’impotenza. Ma attenzione. Molte volte ho sentito dei colleghi stimatissimi fare affermazioni di questo tipo: “è importante entrare in contatto con l’impotenza perché in quel momento si può fare questo e quest’altro”. Non è vero. Quando si entra davvero in contatto con l’impotenza, l’unica cosa che si può fare è essere impotenti, se no non sarebbe così terrificante. E non saremmo impotenti. Quindi l’angoscia sì, potrebbe essere un precursore dell’impotenza, ma siamo ancora nella fase in cui c’è molta ‘attivazione’. Mentre l’impotenza, che magari dura solo pochi attimi, è il momento in cui siamo in contatto con il “non c’è più niente da fare”. E quando proprio non c’è niente da fare, quando davvero il nostro io è completamente fuori gioco, in quel momento quello che accade è… l’orgasmo! (che è l’attivazione di un movimento spontaneo e fuori controllo). Non a caso i francesi chiamano l’orgasmo la petite mort.
Può sembrare che io giochi con le parole: ma gioco sui sensi delle parole per relativizzarli. Abbiamo parlato di impotenza associata all’angoscia e non abbiamo parlato – volutamente – dell’impotenza associata al piacere. L’orgasmo, quello che descrivono Reich e anche Lowen, quello che probabilmente non tutti i giorni incontriamo, è il momento in cui il nostro io, la nostra consapevolezza, si arrende e tutto il corpo è libero di esprimersi in movimenti involontari. Ma perché questo possa accadere bisogna entrare in una condizione di totale impotenza a controllare. E incontrare l’impotenza può essere questione di istanti: istanti in cui davvero attraversiamo il momento in cui non c’è più soluzione. La differenza tra paziente e analista è che quest’ultimo ha già attraversato la propria impotenza e quindi può incontrarla senza scaricare sul paziente angoscia e sofferenza. Tutti i processi di guarigione che ho incontrato nel mio lavoro si sono manifestati come tali nel momento in cui io non sapevo più che cosa fare. È solo in quel momento che la terapia cambia. Da un lato insomma c’è l’impotenza come angoscia e sofferenza. Ma non è l’unica. Sarebbe pazzesco se facessi un lavoro che ha per scopo potersi arrendere al corpo con la consapevolezza che l’unico risultato sia la sofferenza. Il lavoro della bioenergetica è invece proprio di potersi progressivamente affidare, in un processo di ricomposizione, al corpo e quindi alla sua ancestrale saggezza, in un processo lento ma significativo di resa, avendo come meta il piacere.
Di fatto la bioenergetica, e Reich prima ancora, si separa dalla psicanalisi proprio sulla questione del piacere: da una parte c’è l’introduzione dell’istinto di morte, dall’altra il mantenersi ancorati all’istinto della vita (anche se Reich non lo chiama così), dove la morte è un elemento della vita. E quindi fondamentalmente ancorati a un piacere che è solo una dilatazione del principio di realtà, non una restrizione. In un certo senso, la consapevolezza del limite risolve l’impotenza, se però noi tutti fossimo degli asceti, che hanno già realizzato la saggezza. La consapevolezza del limite, per persone ‘normali’ come noi, che operiamo sul piano di realtà, conserva dentro di sé delle illusioni contenute; ma la parola illusione presuppone un’inconsapevolezza del limite e poiché è qualità della nostra esistenza – e se non lo dicono solo gli psicologi ma anche poeti, romanzieri, filosofi, forse è vero – c’è una divisione tra consapevolezza del limite, che ci permette di muoverci nella realtà sufficientemente integrati, e l’impotenza che è l’unica modalità o quasi all’interno della quale l’illusione muore. E può sorgere dalla realtà (corpo) la speranza.