Riflessioni sulla festa dei papà
Le nuove famiglie “complesse”: come le vivono i bambini?
di Alessandra Di Minno
C’è in corso un fermento sommesso, canzoni da imparare di nascosto, lavoretti artigianali aggiustati appena dalle maestre, bigliettini disegnati e colorati. Arriva il diciannove marzo.
Vorrei provare ad abbassarmi di un poco fino ad arrivare con la visuale a un metro circa da terra e varcare la soglia della scuola materna. Sono Pietro, Silvia, Vittorio, Giulia, Davide, Matilde, Mohammed, Emma…
Pietro e Silvia hanno due papà. Uno cosiddetto biologico, l’altro di fatto, come si dice. O come non si dice… Dunque a logica due papà = due lavoretti.
Giulia il papà non l’ha più. In pochi mesi lo scorso anno una grave malattia glielo ha portato via. Niente lavoretto, semmai per il nonno.
Nemmeno Vittorio ha il papà, lui non l’ha mai avuto un papà. In compenso ha due mamme. Lavoretto per la mamma che fa la parte del papà? Ci sarà una delle due che fa il papà, no?
Matilde invece ha un papà ma non vive più con lei, i suoi genitori si sono separati, male. La mamma non dice granché bene del suo papà, lo detesta per tutte quelle questioni non risolte che aleggiano palpabili nell’aria. Imbarazzante tornare a casa col lavoretto…
Mohammed ha un papà che sente via Skype, vive in Egitto, per ora non riesce a raggiungere la famiglia. Si può sempre spedire.
Emma ha un papà che non vive con lei, ha una nuova famiglia e altri bambini. Ma in casa con Emma c’è Simone, lui non c’entra con le sue origini, però tutti i giorni la accompagna a scuola e quando si fa male è bravissimo a metter cerotti e cantare quella canzoncina che fa passare tutto. Un regalino o due?
Ah, manca Isabella: lei ha un papà, la porta al parco la domenica e la sera racconta delle favole fantastiche. Orgoglio a mille per il magnifico lavoretto! Adesso torno alle mie… altezze e provo a condividere qualche pensiero, fresca delle emozioni che ho sentito a un metro da terra.
Comincia ad andare di moda parlare fotografare intervistare le nuove famiglie.
La letteratura sulla materia in compenso è ancora scarsa, ma nelle università ci si scrive tesi, le associazioni che raccolgono padri separati, famiglie omosessuali, famiglie straniere si danno da fare come possono per dare visibilità e chiedere riconoscimento, nascono blog che aiutano a calarsi dentro certe esperienze.
Sto provando, scrivendoci su, a guardare le cose da due prospettive: da una parte quella di sostenere e coltivare un’educazione e dei contesti educativi che facciano dell’inclusione un elemento fondante le pratiche educative; dall’altra sto ricordando a me e a chi ha voglia di leggere che come adulti siamo responsabili di accompagnare i “nostri” piccoli a stare al mondo, a starci bene, e oggi questo richiede una sensibilità aggiuntiva che sappia tenere in conto dei diversi contesti in cui i piccoli crescono.
Includere e accompagnare vale, fosse anche uno solo il bambino in questione. Ma le quantità dicono che ci è richiesto un salto culturale e sociale. Se siamo arrivati a coniare la Sindrome di Alienazione Parentale, se tanti tra amici e conoscenti si separano e costituiscono nuove famiglie, se giornali e riviste continuano a proporci dossier sulle genitorialità omosessuali, femminili ma anche, in crescita, maschili, non possiamo nemmeno più ripararci dietro le quantità esigue per continuare ad affermare le abitudini di sempre.
D’altro canto l’inclusione non chiede che si tolga qualcosa, che si facciano fuori tradizioni o valori consolidati. L’inclusione include, prende dentro, abbraccia e rende parte. Che detta in altro modo potrebbe significare: come posso far sì che Pietro, Silvia, Vittorio, Giulia, Davide, Matilde, Mohammed, Emma entrino a scuola sentendo di avere un proprio posto riconosciuto, spiegato e valorizzato, tanto quanto le Isabelle ben più numerose? E come posso far sì che la piccola Isabella, nella sua “normalità” familiare, a sua volta sappia riconoscere e rispettare l’altrui esperienza di vita?
Credo che spetti a tutti gli adulti chiedersi come costruire una società che include e non segrega, ma credo anche che chi si occupa di educazione non possa esimersi in alcun modo dal farlo e dal chiedersi giorno per giorno che forme può assumere il rispetto per le vite dei bambini e dei ragazzi.
Io posso ad esempio immaginare che il diciannove marzo abbracci una concezione di “paterno” più ampia e morbida, dando valore a chi papà non lo è ma lo FA; posso imparare il coraggio di nominare le assenze e le emozioni connesse restituendo ai bambini che hanno perduto o non hanno mai avuto un padre la possibilità e il diritto di esprimere il proprio sentire; o ancora vorrei luoghi che insegnino ai miei bambini a guardarsi intorno e considerare chi c’è prima di parlare, non perdendo mai di vista il primato del rispetto e della delicatezza.
Le forme, i modi per farlo vengono da sé, le creatività nei contesti educativi non mancano in genere. Se poi volessimo farne occasione di un fertile incontro tra scuola e famiglie potremmo anche immaginare che insieme le due parti si cimentino a inventarsi nuovi modi di far festa così che nessuno ne resti escluso o a disagio.
So di un paese alle pendici del Vesuvio in cui i bambini hanno creato una girandola con una poesia dedicata a un adulto, uomo, che “li prendeva per mano verso il futuro”. È un modo, insegna che non c’è quasi mai IL modo.
Curiosamente il diciannove marzo coincide con la festa di San Giuseppe. A ben pensarci San Giuseppe non era un papà biologico. Non solo. Per essere giuridicamente riconosciuto ha dovuto bluffare. Abbiamo ampi margini per spaziare dunque…