Un processo mentale complesso
Che cosa ci fa perdere i nostri ricordi?
Giorni fa, durante una conversazione sulla situazione in Medio Oriente, dipanatasi da considerazioni sul terrorismo islamico e non, cercavo disperatamente di ricordare il nome di Arafat. Ce l’avevo sulla punta della lingua… e nonostante avessi ben presente il suo volto, chi era, episodi della sua vita, non riuscivo a tirar fuori il suo nome. Parole come Al Fatah… Abu Ammar… intervenivano a confondere i miei ricordi.
Come mai non avevo “trattenuto” quel nome nella mia memoria? E come mai mi ha dato tanto fastidio non ricordare, al punto da tornare continuamente a cercare quel nome, la cui mancanza mi ossessionava, finché non l’ho trovato sul provvidenziale Google?
Quali “scherzi” ci fa la nostra memoria? Nel libro I sette peccati della memoria. Come la mente ricorda e dimentica (Mondadori 2002), lo psicologo statunitense Daniel Schacter esamina le “anomalie” del suo funzionamento, definite da lui “peccati”, parafrasando i sette vizi capitali. Se apparentemente risultano dannosi, in realtà questi “meccanismi di difesa” producono un sollievo per il cervello, non più costretto a ricordare tutto di tutto, compresi i dettagli più inutili, ma libero di ricordare solo le informazioni più importanti.
Schacter parla di “peccati di omissione” o dimenticanze, dovuti a:
– Labilità; invecchiando, la memoria si indebolisce, le nuove esperienze si accavallano, i particolari si sfocano e si confondono con quelli di altre esperienze.
– Distrazione; riduciamo l’attenzione prestata alla memorizzazione, che si traduce in superficialità e pigrizia.
– Blocco; esasperante ricerca di un’informazione che riteniamo di poter rintracciare.
Poi ci sono i “peccati di commissione”:
– Errata attribuzione; quando attribuiamo un ricordo, o un particolare, alla fonte o al contesto sbagliato.
– Suggestionabilità; a un certo ricordo attribuiamo dettagli e particolari fuorvianti, in seguito a domande o osservazioni che distorcono il ricordo.
– Distorsione; rielaboriamo il passato sulla base di nuove conoscenze che ci influenzano.
– Persistenza; un ricordo continua a riemergere nella nostra mente, ostacolando la concentrazione.
Usando questa terminologia, non ricordare il nome di Arafat è stato un esempio di blocco. Ma perché mi sono bloccata? Perché si è inceppato qualcosa nel mio “archivio mentale” proprio lì, su quel dato?
Ecco come funziona il mio “archivio” e come “fisso” nella memoria un’informazione.
Per come la immagino io, l’operazione consiste nel “posizionare” il ricordo come fosse un libro in una biblioteca, nello scaffale giusto, catalogato con un suo indicativo alfanumerico, all’incrocio tridimensionale tra un “quando”, un “dove” e un “cosa”.
Un esempio? Se qualcuno mi parla di uno scrittore che non conosco, e mi fornisce alcuni dati fondamentali (nome cognome, epoca in cui è vissuto, paese d’origine, le opere scritte), lo inserisco nel mio archivio di conoscenze e lo collego ad altri scrittori (cosa), alla sua epoca (quando) e al suo paese (dove), come se fossero chiavi di accesso primarie per ritrovarlo. In più, il mio computer interno crea immediatamente una serie di altre parole chiave/tag per implementare le possibilità di ricerca e utilizzo del dato (titoli delle opere, contenuti, episodi della sua vita ecc. ecc).
Così “mentalizzo”, da sempre, le mie conoscenze.
Ma come “trattengo” i ricordi personali, le mie esperienze di vita, i miei vissuti concreti, che inesorabilmente diventano passato nell’attimo stesso in cui sono esperiti? Fanno parte anch’essi del mio “archivio”, ma li paragonerei a libri con sovracopertine colorate. Anche per loro, per i ricordi personali, c’è una catalogazione basata su quando/dove/chi/cosa. E si sommano ai dati presenti nelle scaffalature che partono dal 18 agosto 1954.
Mentre gli altri dati sono acquisiti per esperienza indiretta (ricordi altrui, letture, insegnanti, oggi internet ecc.), questi sono frutto del mio vissuto. Ma la modalità di mentalizzazione è simile. Solo, il colore è dato dalle emozioni, sensazioni, percezioni che hanno colorato i ricordi personali.
In certi casi, una informazione dapprima indiretta poi diventa ricordo personale. Se per esempio osservo una cartina geografica di un Paese che non conosco, ne memorizzo i dati e li catalogo nella mia biblioteca mentale. Ma se poi in quel Paese vado davvero in viaggio, a quei dati astratti, in bianco e nero, si sommano quelli colorati della mia esperienza diretta. Quante cartine geografiche ho colorato!
Nella mia biblioteca mentale “trattengo” dunque il mio sapere, diretto e indiretto. E quando non ricordo qualcosa… è perché l’ho lasciato andare? Che cosa fa sì che un ricordo si perda? E come fare per rammentare? O ricordare? O rimembrare? Quale differenza c’è tra queste forme diverse di “trattenimento” del ricordo?
O forse è un modo diverso di “mantenere”? È possibile che in un caso si tratti di un’operazione più cognitiva? E un’altra più emotiva? O più fisica? Posso rimembrare qualcosa se non l’ho provato nel corpo? Posso ricordare qualcosa se non l’ho esperito emotivamente?
Mantenere fa riferimento a tenere con la mano. A tenere una cosa così com’è. In un certo senso, a tenere una cosa perché non si perda, non si lasci andare, non si rovini, danneggi, guasti.
Un ricordo va trattenuto o mantenuto? Perché trattenere ha a che fare con bloccare, frenare… Mentre mantenere ha a che fare con proteggere, conservare… E contenere ha a che fare con accogliere, includere… E sostenere con sorreggere, aiutare…
Forse si può lasciar andare davvero solo se non si trattiene.
Lasciar andare è il contrario di trattenere. Mentre si accorda con mantenere, contenere e sostenere.