Quando è difficile dire…
Spiegare ai bambini le difficoltà della vita familiare
di Alessandra Di Minno
Nella nostra vita familiare accadono cose che sono difficili da dire ai bambini. Partiamo dal chiederci se ha senso dire, se non è più protettivo fornire altre versioni, fino a domandarci come fare, come trovare le parole giuste, comprensibili.
Questo è un racconto, storia vera, di una madre che ci prova, con tutte le fatiche del caso. Lo condividiamo perché possa aprire riflessioni, commenti, domande.
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Sono le otto. Sento passi piccoli e frasi complici che si avvicinano. Il letto si popola. Due bambini, un cane, un gatto e io. Non avanzano centimetri.
– Ben arrivati, buongiorno. Questa mattina ho bisogno di parlare con voi di una cosa importante.
Ho il cuore in gola. Sento nel centro di me una paura che mi rimangerei subito tutto.
– Di cosa, mamma?
– Di cosa, mamma?
Li ho accanto. Sono due persone. Due bambini, sì. Ma ancora prima due persone. Non è una sottolineatura banale. Perché pensarli solo bambini potrebbe indurre la tentazione di ritenerli del tutto diversi dagli adulti.
Invece saperlo e riconoscerli persone vuol dire riconoscerne il diritto alla verità, al rispetto, vuol dire giocarsi il proprio potere con accortezza e dare valore al loro potere pur nella diversità. Non è sufficiente accudirli, proteggerli, amarli ed educarli. Rispetto e verità come diritti profondi. E corrispondenti miei doveri. Troviamo un linguaggio comune. Per usare le parole bambine che sanno capire devo prima capire io dove sono ora loro, anni cinque, compiuti nel giorno più caldo dell’anno. Sì, perché oltre a persone sono anche bambini. Il che comporta la mia responsabilità di tradurre il mondo che attraversano, laddove è necessario, in un linguaggio che sia accessibile
– Sapete cosa vuol dire essere sposati o fidanzati?
Si insinua il dubbio che la loro attenzione, come dicono i manuali e le loro rispettabili misurazioni, non terrà e crollerà presto in risate, spinte animali per prendersi più posto nel letto o nuove invenzioni del momento per non stare.
E invece no. Loro seguono il filo delle parole fino alla fine, con un’attenzione che andrebbe fotografata, portata nei consigli di classe per studiarci cosa fa stare o non stare i bambini dove sono. Sanno cosa vuol dire essere fidanzati.
– Io, mamma, non posso baciarti sulla bocca perché purtroppo non siamo fidanzati – dice il mio omino.
Freud si frega le mani. Ve l’avevo detto io!
Mi spingo un po’ più in là, nel concetto delle differenze. Ci si vuole bene in modi diversi. Non solo, svelo una novità che mai li aveva sfiorati: il bene si trasforma. Da fidanzati/sposi ad amici, per esempio. Siamo nel pieno dei ragionamenti. Piccoli anche loro. Parole pensate, per pensare, da pensare. Ma loro pensano?
Pag XX di Jean Piaget: il pensiero pre-operatorio. Eccoci qui. Il bambino guarda le cose unicamente dalla propria prospettiva. (In genere anche noi…)
Il bambino tende a concentrarsi su unico aspetto evidente, considerando una parte come il tutto. Il suo è un pensiero concreto, irreversibile, lento, contraddittorio… e una sfilza di appellativi che sintetizzerei così: vivono nel loro presente e pensano il loro presente in quanto esperienza. Grazie, Monsieur Piaget, proseguo per conto mio. Starò su questo: il presente e l’esperienza.
– La mamma e il papà, come sapete, un giorno si sono sposati, vi abbiamo raccontato come e perché… Poi però i sentimenti che si provano possono cambiare. Così succede che la mamma e il papà si vogliono bene ma non più quel bene che fa scegliere di essere sposati e di vivere insieme.
Silenzio. (Ora crolla tutto… Ricorda Piaget, la loro prospettiva!)
– Però – proseguo col senso di colpa che mi fluttua nelle vene per il dolore che sto loro addossando – mamma e papà restano la vostra mamma e il vostro papà per sempre, questo è un bene che resta per sempre e non cambia, semmai diventa ancor più bello e forte. (Il pensiero concreto!!)
– E dunque ogni giorno accadrà che… – Eccetera eccetera.
Entriamo nel racconto di come si dispiegheranno i giorni, quel lavoro pressoché quotidiano che già facciamo e che li accompagna a destreggiarsi serenamente nella loro quotidianità un po’ complessa. Silenzio.
– Possiamo vedere la casa nuova del babbo?
Proseguiamo così. A immaginare il nuovo presente. Fino a – Va bene, ma ora facciamo giardinaggio come avevi detto? Perché sorridono e sembrano sereni come non fosse accaduto nulla di doloroso? E il dolore? Dov’è il dolore?
Il dolore arriverà, a braccetto col fare esperienza nel presente che verrà di questo nuovo capitolo della vita. Il corrispettivo corporeo di questa consapevolezza è un groviglio stretto e doloroso nello stomaco. Ci diciamo anche che capiterà di piangerci un po’, che si potrà fare, si potrà parlare. Perché dietro l’angolo è già pronta la tentazione di consolare prima ancora che si possa arrivare a piangerne, di distrarre perché non se ne accorgano, di preferire mezze verità perché son bambini e vanno protetti.
Io però sto imparando una cosa: il dolore va pianto, la rabbia gridata, la gioia saltata, la paura tremata. E la verità, detta.