Frontiere disumane
Riflessioni e domande su solidarietà e accoglienza
di Alessandra Di Minno
Guardano i miei occhi le immagini dei bambini senza vita sulle spiagge di cui trattengo freschi ricordi, noi che correvamo gioiosi prima di raggiungere l’acqua fresca del mare.
Guardano i miei occhi migliaia di persone in cammino sulle autostrade che portano lontano dal male che hanno visto e scampato, e mi tornano i chilometri da poco macinati allegramente per attraversare il nostro Paese.
La loro vita appesa a un filo, saccheggiata.
La mia vacanza rigenerante.
Ascolto, osservo, rifletto. Mi appiglio alle parole stampate, pronunciate, a quelle più effimere dei media digitali. Mi faccio delle idee.
Mi portano le idee a camminare scalza per strada, insieme a tanti. Alziamo la bandiera della solidarietà, come ad appendere sui balconi quel lenzuolo indignados perché lo leggano tutti e bene. Siamo indignati.
Sono indignata.
Viene calpestata la vita di tanti essere umani, vengono calpestati bambini, donne, uomini, come cose. Rovinati, derubati, maltrattati, una lista dell’orrore che a mala pena posso soffermarmi a sentire nella loro crudezza.
Siamo solidali, lo sono senza dubbio e lo annuncio manifestando, postando quel che posso sull’argomento, raccogliendo vestiti e cose di necessità per farne dono a chi ha bisogno.
Abbiamo richieste ben precise: i corridoi umanitari, la libera circolazione, l’abolizione della penalizzante distinzione tra migranti economici e rifugiati, una strategia di accoglienza condivisa dai Paesi dell’Unione Europea. Frontiere dis-umane, filo spinato che fa male, indifferente e spietato a respingere l’accesso nelle proprie terre di vite che disperano una via di fuga.
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Ma io…? Mi sale dentro una domanda: ma io la aprirei la mia porta?
La mia di casa, quella che delimita il nostro territorio con quello degli altri.
Quella che differenzia la mia famiglia da quella accanto.
Che posso chiudere per ritrovarci noi la sera e nel tempo libero gustando e faticando anche nel nostro essere famiglia. Che garantisce riparo, quiete, identità insomma.
Io potrei allargare i miei confini territoriali, non sporadicamente per ricevere nel piacere gli amici in uno scambio di nutrimento, ma cambiando nella sostanza la forma del mio territorio?
Correndo il rischio di quelle perturbazioni che ogni sistema subisce quando modifica la propria forma e cambia il gioco delle forze interne.
Mettendo a rischio l’equilibrio mio, dei miei bambini, della mia coppia, assumendomene la responsabilità.
Io accetterei di mischiarmi con le differenze culturali che si dettagliano nel quotidiano, odori, umori, sapori, ritmi, abitudini, idee, linguaggi?
Di decentrarmi rispetto al mio per fare spazio all’altro quando l’altro non è il compagno o la compagna amata o un figlio, una figlia, un fratello, un padre ?
Io so guardare al mondo come Terra di tutti, libera di essere circolata, accogliente verso chi ha bisogno a tal punto da fare della mia casa un pezzo di questa Terra così come la sto chiedendo ai miei governanti e a quelli dei Paesi vicini?
In tutta onestà dico di no.
Non saprei accogliere in questo momento un bambino siriano o dare una delle mie stanze a una coppia pakistana.
Ho i miei bambini da proteggere, un’economia da curare per starci dentro, un’organizzazione quotidiana fatta a incastri che non posso permettermi di caricare con un carico di questo tipo.
Ho un benessere psicologico che mi piacere curare, decidendo anche quali esperienze fare e non fare.
Mentre quella povera gente prosegue giorno dopo giorno il suo viaggio della speranza con poche cose addosso, gli orrori negli occhi e una speranza sbiadita davanti la mia vita resta la stessa.
Io non sono disposta a far si che gli eventi di questi giorni mi entrino così dentro da non poter più fare la stessa vita di prima che accadessero.
La mia vita non si fa cambiare, io non lascio che accada.
Quando spiego ai miei figli, con parole bambine perché possano cogliere qualcosa di senso, che il nostro benessere ha come prezzo la loro povertà e disperazione, la loro di tre quarti del mondo, io non sto dicendo che sono disposta a rompere questo schema. è per questo che quella proporzione perversa tra povertà e ricchezza resta invariato e non accenna a diminuire.
Ho il cuore triste mentre constato il mio limite.
Mantengo l’umiltà di non giustificarmi, ma allo stesso tempo cerco la benevolenza davanti al mio limite.
Oggi il mio limite è lì. Lo vedo, lo osservo per comprendere con onestà come sono veramente. Può darsi che a osservarlo accada qualcosa, che si aprano brecce o che si modifichino tratti dei miei confini.
Sono meno indignata, forse, più addolorata per questo mondo al rovescio con me che ne faccio parte.
Ho fatto esperienza questa volta di cosa sia la maieutica della vita quotidiana: mi sono messa a guardare dentro, sospendendo le affermazioni, e ad aprire domande.
Questo non mi impedisce di tenere un occhio aperto al mondo fuori di me, ma se ne tengo uno rivolto all’interno le affermazioni che mi escono sono intrise della mia carne e della mia verità.