Riflessioni di un counselor sulla Giornata Mondiale della Gentilezza
L’idea è nata in Giappone nel 1997 ed è dal 13 novembre, giorno in cui a Tokio si riunì per la prima volta il World Kindness Movement, con il suo logo dai cuori colorati, che ogni anno si celebra questa ricorrenza. Da allora una trentina di Paesi hanno aderito all’organizzazione mondiale (www.theworldkindnessmovement.org), e tra questi l’Italia, dove esiste un Movimento Italiano per la Gentilezza promosso una ventina d’anni fa da Giorgio e Marta Alassa.
La parola deriva dal latino gentilis, con il significato di ‘che appartiene alla gens, la stirpe’, poi divenuto ‘di buona stirpe’. Ha a che fare dunque, in origine, con un nobile lignaggio, ma la parola poi ha assunto piuttosto il significato di ‘nobiltà d’animo’. È gentile chi è educato bene: non però nel senso di conoscere le buone maniere e applicare le regole del galateo, quanto in quello di essere stato cresciuto secondo dei principi di correttezza, bontà, amorevolezza, attenzione per l’altro.
Ma davvero, vien da chiedersi, abbiamo bisogno di una Giornata Mondiale per ricordarci di essere gentili?
Pare di sì, se stiamo ai fatti di cronaca quotidiana, o alla nostra semplice esperienza nella relazione con gli altri. Essere gentili non sembra, purtroppo, una caratteristica universale, pur essendo la più meravigliosamente umana delle qualità. E dunque per questo dobbiamo ricordarcelo e diffonderne la pratica.
Per chi svolge una professione come quella del counselor, è facile vedere come la gentilezza abbia molto a che fare con l’empatia: con quella specifica qualità (competenza, abilità, skill che dir si voglia) che ogni counselor – in realtà, ogni professionista della relazione d’aiuto – dovrebbe mettere in campo e aver sviluppato e affinato grazie alla propria formazione professionale e al proprio percorso di crescita personale.
Gentili perciò si nasce, ma soprattutto si diventa. E la scuola ha una grande responsabilità in questo. La famosa educazione civica dei nostri tempi (chi scrive ha 65 anni…) non avrebbe dovuto essere gettata alle ortiche, perché se le famiglie non provvedono a insegnare certe cose – e infatti molte non lo fanno – almeno la scuola, per arrivare a dichiarare “maturo” qualcuno, dovrebbe garantire che nel percorso di studi avesse imparato le regole di base dello stare in relazione nel mondo: con se stesso, nel rapporto one-to-one, con gli altri in senso lato.
Essere gentili dunque non vuol dire solo far sedere sull’autobus chi è più anziano, o dire grazie al barista che ci porge il caffè, o raccogliere una cosa caduta a chi ci cammina davanti, oppure aiutare una persona anziana che sta portando la spesa…Vuol dire avere attenzione e disponibilità verso il prossimo e verso l’ambiente, in qualsiasi momento e contesto, ovvero nel qui e ora della nostra esistenza quotidiana. Avere rispetto della vita, dei valori, delle differenze, delle opinioni. Rispetto delle regole e dei confini, con la capacità però sempre di anteporre l’essere umano a qualsiasi legge, se fosse ingiusta o discriminante. Significa avere cura, prendersi cura, offrire cura, accettare cura. Anche con poco, anche con piccoli gesti, anche con uno sguardo o con un sorriso.
Essere gentili non significa dire sempre di sì. Anche il no – sacrosanto, a volte! – può essere comunicato in modo gentile. Assertività, coerenza, congruenza, trasparenza, sempre qualità che un buon counselor deve possedere, possono andare di pari passo con un modo di essere che, come ci ricordava Carl Rogers, tiene in conto l’altro, lo vede e lo guarda, lo ode e lo ascolta, lo sente profondamente.
La gentilezza parte da noi, dalla consapevolezza di chi siamo e del nostro valore. Potremmo dire, parafrasando il Vangelo, “sii gentile con il prossimo tuo come sei gentile con te stesso”. Se lo fossimo, forse non avremmo più bisogno di una giornata mondiale per ricordarcelo. Anche perché, di questo passo, avremo bisogno di una giornata mondiale della onestà, o della lealtà, o della sincerità.