Era il 22 novembre 1901…
Avrebbe ben 115 anni e lo ricordo con tenerezza
Oggi, 115 anni fa, nasceva a Dergano (allora non era ancora Milano) Angelo Callegari. il mio papà. Lo sarebbe diventato circa 53 anni dopo, visto che sono nata il 18 agosto del 1954.
In questa foto lo si vede vicino a me sul seggiolone, io grandi occhi spalancati verso il mondo a guardare con meraviglia tutto quanto, lui sorridente.
Era un bell’uomo, questa foto non gli rende giustizia.
Ma a me, negli anni, ormai bambina e non più infante, sembrava solo “vecchio” (aveva 22 anni più di mia madre) e più un nonno che un padre. Lo associavo a mia nonna materna, che trascorreva lunghi periodi a casa nostra e finì poi per trasferirsi del tutto da noi, dalla sua amata Parigi, nel 1960.
Mio padre era un solitario (un enneatipo 5 conservativo): stava chiuso per ore nel suo studio a scrivere e leggere, lui che, secondo figlio di undici in una famiglia modestissima, aveva finito le elementari alle serali da ragazzo, mentre già lavorava.
Uscito di casa il padre (di cui poi non volle mai parlare) quando era giovanissimo, morta la madre e il fratello maggiore con la terribile “spagnola” nel 1920, Angelo si ritrova a occuparsi dei suoi sette tra fratelli e sorelle rimasti. E se ne occuperà poi sempre.
Nonostante le traversie, il desiderio di conoscere, di sapere, di capire, e la determinazione a farsi un posto nella società lo portano, nel giro di pochi anni, a diventare imprenditore.
Aveva cominciato, ventenne, a fare il venditore nel settore dei cosmetici, e a 25 anni aveva già una propria automobile (!) e girava non solo l’Italia ma l’Europa. Nel 1940 riesce ad aprire una propria azienda di cosmetici, la Siade, producendo una linea di prodotti Via col Vento che cavalca l’onda del successo del film di Fleming uscito nel ’39.
Le bombe dell’agosto ’43 colpiscono e distruggono la sua piccola azienda, in via Mameli, ma non si dà per vinto e la ricostruisce a Monza, in un edificio immerso nel verde proprio davanti al parco della Villa Reale, che ricordo con tenerezza perché, quando capitava che mi ci portassero, mi sembrava un posto un po’ magico.
Il suo lavoro – e soprattutto la sua passione – lo portano a viaggiare tanto, e a Parigi conosce nel 1948 una donna bellissima, 25enne, giovane promessa del teatro, figlia unica di un piccolo ma raffinato editore di libri fotografici, Sandro Guida, appassionato di cinema, di teatro, di circo, amico di pittori e poeti.
Per Angelo è il colpo di fulmine e propone a Lena (nome d’arte, in realtà si chiamava più prosaicamente Marie Henriette) di raggiungerlo in Argentina, a Buenos Aires, dove intendeva aprire una succursale della propria azienda.
Lei, più per dimenticare un grande amore fallito che per reale convinzione, lo segue. E si sposano a Montevideo nel ’49. L’anno seguente decidono di tornare, l’Argentina non è l’El Dorado sognato. E si trasferiscono a Milano, in via Fabio Filzi, dove poi io sono nata e vissuta fino ai miei dieci anni.
Di quei agli anni ricordo che con papà, nel suo studio (di cui conservo il tappeto persiano un po’ liso che ora sta nel mio), giocavamo qualche volta a dama. Oppure cantavo per lui le canzoni di Mina, che lui registrava su un vecchio magnetofono…
Il mio rapporto con lui era molto condizionato, all’epoca, da quello che di lui raccontava mia madre, che in realtà lo detestava. E al ricordo di una terribile sera in cui – avevo forse cinque anni – dopo un terribile litigio papà se ne era andato sbattendo la porta. E mentre io lo chiamavo piangendo, mia madre aveva inveito come sempre contro di lui, che sceglieva invece, come sempre, di ritirarsi, lasciandole il campo.
E il campo lo lasciava in tutto. Io per fortuna non creavo problemi (a scuola andava benissimo, e nonostante le mie energie inesauribili in casa ero “brava” e beneducata, grazie alla severità di mia madre) e quindi per lui era facile non doversi occupare di nulla, e nemmeno della mia educazione. Non mi abbracciava mai, non perché non volesse, semplicemente perché non ne era capace. E che mi volesse in realtà molto bene, l’ho capito solo più tardi.
Nel frattempo la Siade aveva acquistato una certa notorietà, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, per aver commercializzato in Italia Aqua Velva e Ice Blue, allora famosi prodotti americani per la rasatura da uomo, pubblicizzati a Carosello con personaggi come Walter Chiari, Carlo Dapporto e la cantante di colore Josephine Baker.
Proprio con lei, notissima all’epoca per aver adottato in Francia ben dieci bambini di Paesi del mondo diversi, Angelo Callegari aveva portato in Italia nel 1962 la Festa della Mamma, creando per primo a Milano il premio per la “mamma di chi non ha mamma”.
Ricordo con tenerezza la domenica di maggio in cui, Con Josephine, suo marito e un grappolo di figli variegati, entrammo nel salone napoleonico del Circolo della Stampa accolti dagli applausi e io… fui creduta una dei suoi tanti bambini adottivi. Mi misi a piangere dicendo che no, non ero figlia sua!
Nel 1964 ci siamo trasferiti in una casa enorme, in viale Bianca Maria, dove ognuno di noi quattro – mia nonna, io e i miei genitori – avevano la propria camera. La separazione di fatto tra mio padre e mia padre era già avvenuta, ma formalmente vivevano sotto lo stesso tetto. La tensione era purtroppo quotidiana, con mia madre (un 2 sessuale) sempre emotivamente sopra le righe, mio padre sempre più chiuso in se stesso e silenzioso.
Nonostante non lo fosse, il suo ritornello quando litigavano e lui si ritirava arrendendosi era “Sono un fallito”… e io lo sentivo come un marchio a fuoco su di me. C’è voluto del tempo e tanto lavoro personale per comprendere che quel suo ritirarsi era un meccanismo di difesa – l’unico che sapeva mettere in atto – e cambiare il mio giudizio su di lui, provando anzi tenerezza al posto della rabbia.
Ed è anche, in parte, la tenerezza che mi ha portato, quando i miei si sono separati legalmente nel 1974, a decidere di andare a vivere con lui, seppure in primo piano fosse la voglia di andare contro mia madre. Ormai ventenne, quella scelta era un modo per ripagare lui di non averlo mai davvero stimato prima, e restituirgli valore. E infatti siamo vissuti insieme per un po’, dal luglio 1975 in avanti, in un appartamento di viale Caldara che ho poi tenuto per molti anni.
Lì, mentre andavo all’Università, sono riuscita ad ascoltare i racconti della sua vita e a mettere insieme un po’ di pezzi. E mai, nemmeno una volta, mio padre ha detto qualcosa contro mia madre. È uno dei meriti che gli riconosco.
Finché, ai primi di dicembre del ’78, lo operano alla prostata per un tumore. L’intervento va bene, ma le conseguenze dell’anestesia sono disastrose. Inizia il calvario di un Alzheimer che diventa poi demenza senile, consumata dalla primavera ’79 fino alla morte, il 26 marzo 1983, in una stanza privata di Villa Turro, con l’assistenza amorevole di una infermiera, Maria Luisa, divenuta poi una cara amica.
All’epoca lavoravo alla Notte, avevo cominciato la mia carriera di giornalista. E quel giovedì mattina di marzo mi chiamarono in redazione perché mio padre stava male, respirava ormai a fatica. Resistette fino alle otto di sera, spegnendosi in un sospiro mentre gli tenevo la mano.
Quando, nei giorni successivi, dovetti mettere in ordine a casa le sue cose, trovai i suoi diari. C’erano note sparse, essenziali, su come negli anni aveva vissuto il proprio matrimonio, la mia nascita, la mia crescita, e infine la nostra vita a due. E c’era il suo volermi bene, tanto, con tutta la difficoltà di dimostrarlo. Gli enneatipi 5 cono così. Per questo ho imparato a conoscerli e ad apprezzarli, al di là dei loro silenzi e delle loro chiusure.
E oggi ti penso, papà, con una malinconia dolce, avvolta dalla nebbiolina di una giornata uggiosa che un po’ ti assomiglia.
Ti penso, e ti dedico queste righe.