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Ogni pretesto è buono

Un cartellino verde che premia

Dalle partite di calcio giovanile
un esempio di pedagogia ‘illuminata’

di Alessandra Di Minno

Ho scoperto, nelle chiacchierate a bordo campo, che ora esiste il cartellino verde: nelle partite di calcio giovanile, accanto ai temuti cartellini giallo e rosso, l’ultima novità è un cartellino verde che premia gesti di fair play sportivo. Se con un avversario a terra o in difficoltà si manda fuori volontariamente la palla, se si collabora con l’arbitro onestamente in caso di dubbio, se insomma si sa dare spazio a certa sportività onesta e leale si viene premiati simbolicamente davanti a tutti.
Ne sorrido perché mi piace sempre quando si dà valore alle risorse e ai successi di varia natura delle persone.

E intanto colgo l’occasione per far emergere domande. A che cosa serve premiare o valorizzare un buon comportamento?

Il buon senso, aiutato dai più sofisticati studi comportamentisti, ci dice che tendiamo a riprodurre un comportamento se, mettendolo in atto, abbiamo ricevuto qualcosa in cambio. Perché evidentemente le cose buone ci piacciono.
Il comportamentismo, che si posiziona per l’appunto dentro il territorio dei comportamenti, ha effettivamente portato la nostra attenzione sull’efficacia del rinforzo positivo qualora si vogliano incrementare certe azioni a discapito di altre meno funzionali. Ha aperto la nostra visuale pedagogica che, precedentemente, puntava molto più sul rinforzo negativo, ovvero sul disincentivare le azioni ritenute scorrette attraverso forme diverse di repressione, dal giudizio negativo fino alle pene corporali. Lo ritengo un passo prezioso, seppure non così bene integrato come potrebbe apparire, perché ancora oggi facciamo fatica a privilegiare significativamente il focus su ciò che va piuttosto su ciò che non va e a rimandarlo ai nostri interlocutori, siano essi bambini o adulti.

Allora ogni pretesto è buono per riconoscere e rinforzare i gesti, le azioni, gli atteggiamenti costruttivi e funzionali, perché così ci aiutiamo reciprocamente, tanto più se abbiamo una posizione pedagogica. Agiamo nella zona di luce, ci mettiamo energia e calore, coltiviamo quella parte di noi e degli altri che fa bene e fa stare bene, andiamo a nutrire quella fiducia nella naturale tensione verso l’evoluzione e il benessere che l’Uomo ha dentro sé. Tuttavia c’è qualcosa che mi ha sempre fatto sentire il comportamentismo un abito troppo stretto.

C’è un’altra domanda che si solleva: che ne è di noi, degli altri, quando non facciamo la cosa giusta? E ancora: il nostro valore coincide con ciò che facciamo?

Mi è facile pensare che il nostro valore arriva molto prima di ciò che facciamo e di come lo facciamo. Abbiamo un valore in quanto Persona, che ci rende unici e degni di amore e di interesse.
Eppure quello che incontro spesso è uno scarso senso del proprio valore. Un senso di Sé sofferente, denso di giudizio, una disistima che impregna le relazioni con gli altri o cercando fuori tutto quanto, pensando di non avere nulla di buono dentro, o mimetizzandosi nei più svariati modi. Un disamore che non fa stare bene in compagnia di se stessi e si traduce nello stordirsi come si può o nel vivere con grande insofferenza il contatto interiore.

Quando incontro questa manifestazione di dis-valore ho l’impressione che in gioco non ci siano i comportamenti ma l’Essere, in quanto tale, e che il cartellino verde sia un corollario più che insufficiente. Il valore di Sé non può originare solo dai buoni comportamenti ma richiede quella dose di amore in-condizionato, non condizionato dall’avere fatto o meno la cosa giusta. È quell’esperienza del bambino che si sente amato, accolto fisicamente e approvato perché esiste e non perché risponde bene. Quando abbiamo davanti un bambino possiamo ricordarci che sta creando le basi del suo senso di Sé e che tutto ciò che possiamo fare per sostenere questa base è prezioso.

Ogni pretesto diventa buono allora per comunicargli il suo valore “indipendentemente da”. Lo comunichiamo col corpo, che lo accoglie, gli sorride, lo ascolta, lo guarda, gli fa fare continue esperienze di valore e di essere degno del nostro rispetto e del nostro interesse. Lo comunichiamo condividendo le emozioni che ci fa provare, perché possa sentire di essere parte imprescindibile della relazione, attore essenziale insieme agli altri della scena. Lo comunichiamo ricercando con lui/lei ciò che lo contraddistingue come persona, perché ne sia consapevole, perché sappia quali sono i suoi confini, quali le luci, le risorse, quali le ombre, le fragilità. E attribuendo valore a ciò che gli appartiene, prima ancora di connotarlo in senso qualitativo.

Tra noi adulti in fondo può accadere la stessa cosa.
Un adulto ha una storia più lunga, una percezione di sé strutturata e credenze interiorizzate che a volte emergono con forza facendo sentire quanta sofferenza sia legata al fatto di sentirsi di scarso valore. Se coltiviamo il senso del valore dentro noi possiamo restituirlo ogni volta che vogliamo, nelle continue occasioni che la quotidianità ci offre.
Tuttavia credo che occorra coltivare la consapevolezza di quanto insidioso sia anche dentro noi il dis-valore sotto forma di disattenzione e, ancor più, di giudizio. Coltivando questa consapevolezza ci diamo la possibilità di aprire la strada alla pratica del dare valore e scoprire quanto ne abbiamo bisogno tutti quanti. Chi si disistima ma anche chi eccede in amor proprio e che, a volte, maschera un’insicurezza altrettanto importante. In un mondo come quello attuale, che esalta solo in superficie l’Io e la sua onnipotenza illusoria, credo davvero che possiamo incidere tanto nel profondo di noi stessi e delle persone che abbiamo accanto curando l’atteggiamento e restituendoci valore.